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Una intervista di Davide Dell’Ombra a Franco Soldani

Il testo che segue è la prima parte, in versione integrale, dell’intervista a Franco Soldani realizzata da Davide Dell’Ombra e da questi pubblicata quasi integralmente sulla sua pagina web Sitosophia. Senza peli sulla lingua e chiamando le cose col loro nome, Franco Soldani smaschera una serie di stereotipi che ancora oggi continuano a secernere guasti a nostro danno. Marx e la scienza, la teologia e la scienza, gli inganni del potere e gli eventi dell’11 settembre 2001, le nuove funzioni del Megamedia e dell’elite accademica occidentale, filosofia e conoscenza, insieme ad una differente interpretazione del rapporto uomo-natura, sono solo alcuni degli argomenti affrontati dai due studiosi nel corso della discussione. A giorni pubblicheremo le altre due. Stay tuned, come dicono gli anglosassoni.

Davide DellOmbra: Quando cominciai, quattro anni fa, a interessarmi ai Suoi scritti, recensendo per SWIF i due volumi de Le relazioni virtuose (Uniservice 2007), mi colpirono subito due aspetti della Sua riflessione sul mondo della conoscenza: il primo aspetto riguarda la sensazione, già leggendo quell’opera e in seguito altre, di entrare in un circolo epistemico dal quale riesce difficile uscire, quello in cui ogni conoscenza scientifica e financo filosofica, nessuna esclusa, essendo «preformata dal capitale», risulta necessariamente falsa e inattendibile. A quel punto appare arduo ogni tentativo di risalire la corrente e, uscendo dal circolo vizioso, tuffarsi nella «realtà». Il secondo aspetto riguarda invece la pressoché totale assenza, ancora in quell’imponente scritto del 2007, di un riferimento preciso al pensiero di Marx, nonostante si facesse ampio ricorso a esso in generale. Questo secondo aspetto non potei fare a meno di sottolinearlo nella recensione ma, con grande piacere, ho notato che nel Suo ultimo lavoro, Colonialismo cognitivo (Faremondo 2011), Lei ha provveduto ampiamente a soddisfare la mia curiosità su quel particolare (si vedano le pagg.27 e segg.). Per riassumere, cosa secondo Lei Marx ha intuito dei rapporti tra cultura, società ed economia e cosa invece dei suoi scritti va considerato, come si usa dire, ‘superato’?

 

Franco Soldani:

Intanto Dell’Ombra la ringrazio di avermi concesso l’opportunità di poter discutere con lei di questioni che neanche sfiorano la mente di coloro che rappresentano la cultura ufficiale (in genere il mondo dell’Accademia istituzionale, per non dire poi degli attuali Megamedia, divenuti ormai una sorta di Dipartimento della Propaganda dell’Occidente, sulla scia originaria del resto della Congregatio partorita nel 1640 dalla Chiesa di Roma). Diciamo pure che non esistono per questi soggetti. Le persone comuni, poi, ne sanno ancora meno. Se per me è dunque un’occasione gradita, per lei è senz’altro un merito.

Detto quello che andava detto, che d’altra parte era solo un prologo, entriamo pure in medias res.

Si potrebbe cominciare da una constatazione. Il pensiero di Marx è come una sorta di ganga concettuale che contiene non pochi cristalli di conoscenza. Tra l’altro proprio nel senso etimologico della voce tedesca Gang: vena metallifera, filone aureo, ma anche sentiero, via da percorrere, strada con multipli incroci e segnavia. Questi cristalli vanno estratti dal loro grembo proprio come in una miniera cognitiva: si estrae il diamante separandolo dallo sterile ed eliminando quest’ultimo.

Purtroppo lo sterile non si fa eliminare tanto facilmente dalla scena, giacché a differenza di quello geologico viene continuamente riprodotto in tutte le salse dalla pubblicistica accademica odierna e come una perfida fenice intellettuale rinasce continuamente dalle sue ceneri. Si vedano ad es. i francesi Renault e Duménil con il loro Lire Marx, oppure gli italiani Tomba Massimiliano, Nicolao Merker, ecc., per non menzionare poi gli anglosassoni e gli stessi tedeschi. Tutta saggistica rigorosamente istituzionale. Che tragica ironia! Marx che dà lavoro (ed emolumenti) a chi lo imbalsama. Nato per sovvertire lo stato di cose esistente, il pensiero dei classici è ora divenuto il cemento accademico che si prende cura del suo sistematico consolidamento.

Ovviamente ciò viene fatto dagli agenti dei dominanti e dall’Accademia per avvolgere di spesso fumo il contesto, per secernere di continuo dei cliché e metterli al posto dell’originale, in una sorta di clonazione o emulazione solo dell’inganno, in modo che non si possa discernere alcunché sotto quelle mentite spoglie e il fenotipo possa prendere tranquillamente il posto del suo genoma. Il che è come dire che il figlio (di un adulterio, tra l’altro) genera il padre. Per nostra fortuna, l’inganno a nostro danno non è un monolito d’acciaio. Qualcosa traluce comunque e s’intravede dietro le sue fattezze fittizie. Del resto, se siamo qui a parlarne, ciò dimostra che qualche crepa in quell’edificio artefatto, per quanto sia stato fatto ad arte, è comunque diventata visibile.

In ogni modo, se prescindiamo da queste condizioni al contorno, che rendono tuttavia ancor più difficile quel lavoro, penso che esista in effetti nella complessa concezione di Marx ed Engels (ovvero, per intendersi, i classici) una sorta di nucleo cellulare che dovrebbe essere accantonato senza indugio tanto è infausto. Come si dice, prima ce ne liberiamo, meglio è. Si tratta del materialismo ontologico (MO). Questa categoria in effetti è letale. Si è comportata nei confronti del pensiero di Marx un po’ come i virus fanno nei confronti della cellula ospite. Una volta accomodatasi all’interno del pensiero dei classici ha cominciato a snocciolare i suoi significati e a generare una serie di nozioni che hanno poi preso il sopravvento sui loro concetti più originali, fin quasi a farli sparire o a renderli irriconoscibili. I marxisti del Novecento, indifferentemente filosofi o economisti, hanno poi fatto di questa icona la chiave di volta delle loro dottrine, ortodosse ed eterodosse, rendendo così il guasto irreparabile.    Si pensi in proposito, giusto per limitarci a tre o quattro preclari esempi, al principio d’esistenza o tesi di materialità di Althusser (<<non si può conoscere che ciò che è>>, congiunto col <<primato dell’essere sul pensiero>>) oppure al Manuale di economia politica di Antonio Pesenti, che è stato per anni una sorta di vademecum della cultura marxista in Italia ed in particolare del Pci (<<l’economia politica è comprensione della realtà quale essa è e una scoperta delle leggi oggettive a cui il suo sviluppo obbedisce>>). E certo si potrebbero citare, sulla stessa falsariga, i diversi compendi  di economia politica pubblicati dal dopoguerra in tutto l’Occidente e persino in Russia e nella Cina di Mao, a partire da quello di Ernest Mandel del 1962 (Traité déconomie marxiste) ai due volumi di Xu He del 1975 (Trattato di economia politica). Dappertutto i medesimi stereotipi.

Oltretutto, si tenga conto del fatto che tutta questa saggistica non fa altro che continuare una tradizione che da Déville, via Kautsky, alla Luxemburg e oltre risale quanto meno alla socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento e alla II e III Internazionale. Se Marx aveva definito il cristianesimo la religione specifica del capitale perché come quest’ultimo era cosmopolita, del pari si potrebbe forse dire che l’economia politica è la scienza dei marxismi perché questi ultimi l’hanno resa internazionale e le hanno affibbiato il dono dell’ubiquità.

Se tutto ciò è successo, vi sono ovviamente delle ragioni. In primo luogo, la colossale impresa intellettuale dei classici. Elaborare un sistema di pensiero alternativo a tutta la cultura pregressa dell’Occidente non era uno scherzo. Ciò li ha obbligati a scegliere una linea di demarcazione concettuale rispetto a tutto il resto che hanno poi identificato nei solidali principi del succitato MO. Purtroppo tale distinzione si è rivelata illusoria e inesistente. Ma vi è di più.

In secondo luogo, infatti, i classici, convinti di poter rendere in tal modo oggettiva la loro interpretazione delle cose, han finito col mutuare dalla scienza dell’epoca le cinque (dicesi 5) caratteristiche del loro MO, che in effetti rappresenta la variante sociale del realismo scientifico del tempo. Conviene riassumerle brevemente per capire quali possano essere i vincoli e i limiti che hanno poi inoculato nella loro concezione del mondo.

 I caratteri del MO


1
. La realtà esterna al pensiero umano,

2. L’anteriorità della natura rispetto al soggetto: la materia è eterna,

3.  L’indipendenza del reale dall’osservatore,

4. Il carattere oggettivo del mondo fisico,

5. si potrebbe infine aggiungere anche un’ultima duplice caratteristica a tale quartetto: la natura processuale e in divenire perenne della Natura emergente o facente tutt’uno con lo status immutabile e sempiterno dell’Universo.

Insomma, Parmenide ed Eraclito in uno.

 

Prescindiamo per un momento dalle funzioni antibibliche e antiteologiche che i classici credevano tutte queste caratteristiche svolgessero. Ciò che ora pare più interessante mettere in rilievo è un intero grappolo di circostanze.

In primo luogo, il fatto che mediante tale modello Marx ed Engels pensavano di poter dedurre l’esistenza anche in società di processi necessari e inevitabili di sviluppo analoghi o identici secondo loro a quelli che la scienza studiava in natura. Se fosse stato vero, questa simmetria avrebbe messo fuori causa tutte le altre spiegazioni della società basate su ragioni e intenzioni arbitrarie (utopismo, progetti di riforma calati dall’alto: l’ingegneria sociale tra ‘700 e ‘800, contratti sociali, ecc.). Non solo.

Avrebbe anche permesso loro di capovolgere la tendenza degli economisti, i portavoce ufficiali e gli ufficiali ideologi della grande borghesia del tempo, a fare della produzione capitalistica un fatto di natura eterno e trasformare invece il mdpc in una società naturalmente destinata, in conseguenza dei processi innescati dalle sue leggi interne, a decadere ineluttabilmente e trapassare così in un diversa forma di organizzazione della convivenza civile. Come si vede, Marx ha cercato di ritorcere contro gli ideologi del capitale i loro argomenti e di trasformare unapologia nellalba di un prossimo tramonto insito nelle cose.

Dal punto di vista di questi molteplici intenti, il MO incorpora al proprio interno tanto il materialismo storico, quanto il socialismo scientifico.

In secondo luogo, l’alleanza con la scienza ha consentito ai classici di far affiorare dal loro pensiero anche un intero set di nozioni indispensabili all’analisi del mdpc come la differenza tra superficie e motore più profondo, la distinzione tra essenza e apparenza su cui si basa ogni conoscenza del mondo, la doppia (duplice-ambigua) natura dei soggetti, il carattere altamente sofisticato delle forme fenomeniche del capitale, la distinzione tra storia pregressa e storia contemporanea del capitale, e in genere una folla di altri concetti ancora che sarebbe qui troppo lungo elencare e spiegare. Ci si può accontentare, credo, di questa constatazione. Tenendo presente anche il fatto che ciascuna nozione sopra menzionata rappresenta una sorta di ipertesto, con una sua coerente trama interna, che apre di continuo la lettura di nuovi altri documenti.

Nondimeno, in terzo luogo, queste acquisizioni, come tutte le medaglie, nascondevano un rovescio e un’insidia di non poco momento. Insieme a quei due frutti, i classici hanno purtroppo messo dentro al loro cesto e poi mangiato anche la famosa mela avvelenata dell’Occidente. Incorporando le scienze naturali del tempo nella loro concezione, essi hanno purtroppo assimilato anche tutti gli stereotipi che la comunità scientifica dell’epoca secerneva dalla propria brillante testa a fini di legittimazione del suo status e della sua funzione aristocratica nel contesto dei saperi societari. La scienza così, come si voleva che fosse, è divenuta in Marx ed Engels conoscenza oggettiva dell’universo, patrimonio generale dell’umanità, spiegazione razionale del mondo fisico, sistema super partes di pensiero, descrizione impeccabile delle grandi leggi di natura, sapere senza tempo ovvero, come ebbe a dire lo stesso Marx, <<un prodotto intellettuale dello sviluppo storico generale nella sua quintessenza astratta>>, che in quanto tale era da considerarsi indipendente da alcunché, precisamente come l’oggetto di cui rendeva conto e di cui rifletteva la natura nella nostra mente.

In quarto luogo, per converso una simile immagine della scienza, così confortevole anche per il senso comune oltre che per gli scienziati, ha naturalmente rappresentato un’invidiabile rampa di lancio tramite cui far decollare negli eterei spazi siderali dell’irrefutabile e del certo la natura incontrovertibile dei cinque principi fondamentali del MO, che sono divenuti in tal modo delle icone laiche di primaria importanza. Corroborati potentemente da quel ritratto agiografico dell’impresa scientifica, si sono trasformati anch’essi in presupposti indiscutibili e da non più discutere dell’intera nostra comprensione dell’universo materiale. Ma non basta ancora.

Insieme e in simbiosi con questi effetti pirotecnici, ed anzi con solo questo scopo in mente, i cinque postulati del realismo fisico in questione, forti dello status ormai conquistato, continuamente e attivamente coltivato del resto, tramite amorevole cure parentali, dalla comunità scientifica che lo aveva messo al mondo, hanno fatto sparire come neve al sole la crux delle origini (quel vespaio dell’Occidente che Ernst von Glasersfeld raccomandava di scansare come la peste). L’hanno letteralmente cancellata dalla scena, resa invisibile e financo impensabile, giacché – proprio come la teologia definisce Dio – hanno dichiarato la natura visibile causa sui, circostanza che l’ha fatta così diventare un universo increato e infinito senza limiti di tempo e di spazio, facendola collimare per di più con l’unico mondo esistente e osservabile da parte del soggetto umano.

Inoltre, tutto ciò doveva essere mandato ad effetto dalla scienza occidentale. Le si presentava in effetti come un imperativo categorico indispensabile, perché solo così sarebbe riuscita a seppellire negli eterni silenzi del nulla il fatto che tanto l’intero set di presupposti del suo realismo, quanto tutti i suoi complessi sistemi di conoscenza costruiti nel corso dei secoli su tale fondamento risultavano essere nient’altro che assunzioni indimostrabili a priori della nostra mente, sofisticati universi allegorici del nostro pensiero in divenire che constavano e constano solo di materia cognitiva.

Una simile eventualità logicamente, oltre ad essere temuta come una calamità intellettuale ed aborrita da tutti quanti, non era neanche lontanamente immaginabile da parte della comunità scientifica occidentale che viveva quella evenienza come un incubo di cui liberarsi a tutti i costi e al più presto, senza fare economia di mezzi. E infatti ve ne hanno profuso à foison.

Da una parte, infatti, se fosse emersa alla luce del sole avrebbe mandato in frantumi il mito dell’oggettività su cui si era fino ad allora assiso il suo rango e avrebbe ridotto in polvere il suo primato. Un evento letteralmente inconcepibile per tutto l’Occidente. O la scienza è neutrale o non è, ci fa sapere Boncinelli, aforisma odierno che è tuttavia valido, alla lettera, anche per il suo esordio nella e con la società contemporanea.

Dallaltra parte, se si fosse verificata una tale (s)ventura, evento visceralmente avversato quanto il precedente, sarebbero affiorati alla luce del giorno anche i suoi profondi legami di parentela col modo di produzione capitalistico e la scienza si sarebbe rivelata quello che in fin dei conti è sempre stata: la più potente macchina intellettuale dell’intera società mai messa in campo dai dominanti per cementare la loro egemonia sul complesso degli individui. Queste sue funzioni diventano forse più chiare se si fa mente locale al ruolo svolto dalla scienza nel prender forma dei processi della sussunzione e nella nascita dei sistemi automatici di macchine nel corso dell’Ottocento, due discontinuità che hanno stilato l’atto di nascita della società capitalistica come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.

Viste le cose dalla loro parte, sia la scienza sia il capitale, da buoni parenti stretti, avevano dunque tutto l’interesse comune a soffocare sul nascere, a seppellire nel più profondo dei mari e a disperdere al vento, se possibile più delle ossa degli eretici, persino la più remota memoria anche solo virtuale di quella possibilità. Per questo insieme di ragioni i succitati cliché salvavita dovevano essere inoculati nella mente anche delle teorie alternative, dei nuovi paradigmi eventualmente emergenti dal seno della società. Lungi dal rappresentare soltanto degli innocui luoghi comuni, quegli stereotipi hanno funzionato invece e continuano tutt’ora a funzionare come una sorta di security system concettuale che vieta preventivamente l’accesso di ospiti indesiderati nella fortificata cittadella della scienza occidentale. Sono potenti password secretate che invece di aprire il regno della conoscenza, ne sprangano con sette sigilli qualsiasi porta d’ingresso e murano con cemento armato tutte le eventuali crepe delle sue ciclopiche mura. E i fatti finora, purtroppo, hanno dato ragione ad entrambi. Avevano visto giusto e sono stati lungimiranti. D’altro canto, non bisogna dimenticare che dispongono di risorse a non finire e di grandi mezzi spropositati a cospetto di chiunque li contesti. E i cliché sono come la superficie del mdpc per il suo motore più interno: non solo rendono invisibile la sua natura più autentica, ma mostrano precisamente il suo opposto. Il falso o l’inganno che questa mediazione secerne diventa verità e concordanza con l’effettivo stato delle cose. Anche qui sembra di nuovo di sentir parlare il nipote di Rameau (il versatile prototipo del conte De Maistre!): <<niente è più utile ai popoli della menzogna, niente più nocivo della verità>>.

In quinto luogo, a seguire in linea retta da tutto quello che il tabù delle origini ci ha rivelato, la natura sostanzialmente apocrifa del pensiero scientifico che si è vista, del tutto falsa rispetto alle immagini di comodo propalate dall’Occidente presso l’opinione pubblica internazionale per i fini anzidetti, si è dunque riversata per intero nel pensiero dei classici. Questi ultimi, in altre parole, hanno quindi incorporato nelle loro interpretazioni anche una colossale impostura, che ha poi finito col mettere al margine, in un denso cono d’ombra, sia nelle loro spiegazioni delle cose, sia ancor più nel marxismo successivo, il set sovversivo di categorie prima additato e che si trova comunque incastonato, ormai sepolto è vero sotto un cumulo di scorie ma la cui luce balugina ancora nel buio, nelle loro analisi più originali. Quel grappolo di idee può ancora diventare la lampada che non ci farà maledire le tenebre.

Sceverare quelle categorie dal materiale sterile in cui sono state interrate e sprofondate, valorizzarle ed usarle per nuove spiegazioni del mondo, richiede ed esige naturalmente che prima venga messo in discussione il MO. È questa potente formazione ideologica, infatti, ad aver mediato e reso possibile quell’interramento. O la si dissolve, oppure sarà molto difficile riuscire nell’impresa di dare ai classici, e soprattutto al pensiero più sofisticato di Marx, il posto che gli spetta nella nascita di un nuovo paradigma della società capitalistica. Per di più, giusto per dire del cimento a cui si va incontro, spezzare la soffocante tutela del MO per poter respirare finalmente una folata d’aria fresca, oltre ad domandare la confutazione dei grandi miti della razionalità scientifica, esige anche che si sappiano indicare soluzioni alternative al suo realismo scientifico (e alle sue molte varianti, fenotipi diversi di un unico genoma).

Se quest’ultimo, come si è visto – per le note e dirimenti ragioni – è integralmente falso, non può più servirci in alcun modo. Deve dunque essere sostituito da un differente set di principi totalmente distinto dai suoi cliché. Tutto ciò, va da sé, c’impone tanto di dare un addio definitivo all’intera cultura dell’Occidente, quanto di prendere le distanze dal realismo ordinario della vita comune, due impegnativi passi sia oltre le dighe foranee in periglioso mare aperto, sia però fuori anche della logica versatile e dentro un altro universo di pensiero. Se la barca anela al mare, come dice il poeta, non la si può rinchiudere nel porto: meglio, molto meglio è alzare le sue vele e prendere i venti del destino dovunque questi la spingano.

 

DD: Come interpreta dunque il rapporto tra scienza e politica? Che tipo di influenza esercita il capitalismo, nelle sue forme più pervasive, sull’attuale configurazione delle scienze ‘esatte’? E quale in quelle cosiddette ‘morbide’? Lei davvero ritiene che all’interno delle élite scientifiche occidentali non ci siano diverse voci?

 

FS

Intanto penso che sia meglio fare una netta distinzione tra politica e capitalismo, se con quest’ultimo intendiamo il modo di produzione capitalistico (mdpc). Inoltre, conviene distinguere anche il termine “politica” dal principio volontà che governa l’agire intenzionale, guidato dalla preventiva conoscenza delle condizioni al contorno, dei soggetti sociali. Questo è potere reale o la decisione al potere (DAP). Chi fa “politica” non decide e chi decide non fa “politica” visibile. Ciò disegna come minimo due livelli di realtà: quella superficiale visibile da tutti e che lo stesso sistema presenta come la sola esistente, come se tutto avvenisse nel suo dominio; quella più profonda e pressoché invisibile al comune intelletto, schermata e protetta dalla prima in genere tramite i Megamedia (sui quali torneremo).

Come spiegava a suo tempo Benjamin Disraeli, più volte Primo Ministro in Gran Bretagna in epoca vittoriana, <<i governi non governano, bensì controllano soltanto la macchina dell’esecutivo, giacché sono controllati essi stessi da una mano invisibile>> (che non era certo la hidden hand, allegoria comunque significativamente teologica, di Adam Smith o degli economisti, alias il mercato). In questo contesto, la “politica” non è l’arte del governo né ha niente a che vedere col bene comune, l’interesse collettivo e simili finzioni: è innanzitutto una macchina dellinganno che oggi in particolare funziona a pieno regime, sulla scia tra l’altro del principio volontà, del decisionismo intenzionale o libero arbitrio con cui si identifica l’esistenza dei soggetti.

Benjamin Disraeli

         Il ceto politico funziona come un comitato d’affari per conto terzi, cioè per conto delle classi dominanti, che all’occorrenza possono direttamente prendere nelle loro mani il governo e la direzione degli affari pubblici. I veri decisori sono i vertici delle Giant Firms e delle Giant Banks – insomma il grande capitale finanziario, mai all’apice della sua potenza come oggi – che tramite i loro uomini e i loro centri di potere (CFR, Trilateral, etc.) tirano le fila dietro le quinte di tutto quanto: sono essi, tramite eventualmente i loro funzionari di alto rango, che fanno nascere scene multiple di realtà mediante i loro arcana imperii, le diverse agenzie di intelligence di cui dispongono, ecc. Infine, come si vedrà, tutti questi personaggi non fanno altro che incarnare il principio determinante del capitale, la logica immanente dell’ordine sovrano sottostante ai loro contegni e alle loro decisioni discrezionali.

Le istituzioni ufficiali del potere politico e della Repubblica, col suo personale tutto intero (la nota “casta”), sono sempre stati, al massimo, dei fiduciari legati da un totale rapporto di dipendenza nei confronti del loro committente (e nel nostro paese non ha mai avuto un volto nazionale). Oggi poi, in Italia e nel mondo a partire dagli USA, i veri decisori si sono installati al comando della cosa pubblica e dello Stato, mostrando al colto e all’inclita quali sono gli interessi che contano davvero.

Se teniamo presenti alla mente questi distinguo e i diversi livelli di realtà che disegnano, bisogna poi dire che la loro fonte è precisamente il mdpc. È la sua logica interna, in altre parole, la causa che secerne quelle distinzioni. Più avanti proverò a spiegare perché debba essere così. Senza di essa comunque, va da sé, non si possono comprendere quei suoi effetti complessi, se il principio di causalità ha senso anche in società.

Del resto, non si creda che la “politica” rappresenti solo una sorta di Flatland repubblicana. Qui conviene forse tenere a mente Borges (Libro de sueños): <<Todo en el mundo está dividido en dos partes, da las cuales una es visble y la otra invisible. Aquello visible no es sino el reflejo de lo invisible>>. E si sa che gli oggetti riflessi dagli specchi possono essere deformati, capovolti, rimpiccioliti e in un certo senso falsati. Possono essere anche mostrati al contrario. Con quel che ne consegue in termini di fedeltà all’originale.

Anche se la DAP lo vorrebbe far credere, e avendo il monopolio dell’informazione purtroppo ci riesce, resta il fatto che la “politica” rappresenta anch’essa un mondo a più livelli – uno visibile l’altro di norma invisibile: l’agire in segreto tramite gli arcana imperii e le cd agenzie di intelligence – a cui competono funzioni attive e di primo piano nel dare forma agli avvenimenti sociali. Il rapporto di dipendenza che la vincola alla DAP, insomma, non la rende mai completamente passiva, ma implica al contrario una sua mobilizzazione efficace.

Questo fatto è stato ulteriormente dimostrato del resto anche nell’ultima guerra di aggressione del nostro paese contro la Libia, di concerto con la Nato e tutto l’Occidente, in conclamata violazione del diritto internazionale e persino della Costituzione italiana. L’aspetto paradossale della cosa, oltretutto, è il fatto che è stato lo stesso Presidente della Repubblica, in teoria il supremo custode della nostra Carta fondamentale, a rendersi protagonista di quella infrazione, col consenso naturalmente delle altre istituzioni legali (sindacati dei lavoratori compresi). Per non parlare poi della “opposizione fittizia” e del “dissenso fabbricato” (alternativi, antagonisti, pacifisti, ambientalisti, ecc.), che sono ormai soltanto delle agenzie governative.

I Megamedia, invece, giusto per dire come sia facile capovolgere la realtà quando si hanno grandi mezzi a propria disposizione, presentano unanimemente Napolitano come un padre della patria (e se questa è l’ultimo rifugio delle canaglie..), circostanza che ci fa toccare con mano il teatro dell’assurdo a cielo aperto in cui siamo precipitati. Siamo immersi fino al collo nella più totale illegalità a nostro e altrui danno, ma viviamo apparentemente liberi in una società fondata sul rispetto delle regole del gioco (il loro, naturalmente). In parallelo il nuovo governo Monti è l’espressione più fedele dell’attuale temibile Sistema Quadrilaterale (copia analogica di quello statunitense e più in generale occidentale, forse addirittura ancora più conforme al capitale finanziario odierno dei precedenti, in quanto andato al potere per decreto e nomina presidenziale!): Chiesa, Finanza/Grande Industria, Militari (a livello oltretutto atlantico o Nato) e Accademia.

Qui siamo ben oltre il comitato d’affari della borghesia di ottocentesca memoria: siamo alla gestione in prima persona, senza intermediari o fiduciari, del potere pubblico e del bene comune da parte delle stesse classi dominanti, che avendo optato per un più esplicito management diretto dei loro affari hanno ormai saltato la tradizionale fase della finzione giuridica e della fittizia rappresentanza democratica (che d’altra parte ha sempre ospitato nel proprio seno giuridico-formale la sovversione della sua impalcatura legale e costituzionale: Napolitano docet, del resto in perfetta continuità con la politica del Pci durante il caso Moro).

Nondimeno, benché la DAP abbia sempre intrattenuto un rapporto molto stretto con la scienza e ne abbia indirizzato la ricerca, soprattutto da quando questa si è istituzionalizzata con le grandi Società ufficiali della seconda metà del Seicento, non si può dire che ne abbia veramente preformato la natura. La questione è molto più complessa, anche perché nel mdpc i soggetti, come dice il loro stesso nome, sia calcano da scena da attivi primi attori, sia sono assoggettati ad una diversa fonte che si media nei loro variopinti contegni.

Del resto, se non fosse così, se si immaginasse il contrario e si pretendesse di poter prendere le mosse dall’esistenza del libero arbitrio soggettivo come da un saldo suolo già dato, si cadrebbe nell’assurdo di far cominciare l’analisi del mondo e la sua interpretazione da un presupposto non spiegato e dunque ignoto. Il che non può essere. Come diceva il grande Juan de Mairena, infatti,<<nada puede ser lo contrario de lo que es>>.

La scienza, d’altro canto, ha potuto fare a meno di una diretta tutela da parte della DAP (senza opporre resistenza alcuna ovviamente alle sue ingiunzioni: si pensi ai Jason statunitensi ad esempio) perché, come si è visto in precedenza, ha avuto agio di mediare da sola la sua natura apocrifa avvolgendola nei diversi e spessi strati di nebbia della sua logica versatile (Love). Quest’ultima, tramite i suoi stereotipi, ha infatti potuto sia presentarsi di fronte alla pubblica opinione sotto le mentite spoglie delle suo opposto, sia mettere in campo un munifico set di concetti flessibili che le hanno poi permesso di assumere le più diverse identità.

In effetti, forse vale la pensa soffermarsi un attimo su questa pressoché sconosciuta proprietà del pensiero scientifico. Si tratta infatti di un aggiuntivo carattere che la mette in grado di realizzare, in sinergia con tutti gli altri, ulteriori performance intellettuali. Detta Love consta infatti di una molteplicità di volti che le permettono ogni volta di comparire di fronte ai suoi interlocutori:

 

  • ora come conoscenza oggettiva della natura (realismo classico),
  • ora come determinismo aperto all’indeterminismo (Max Planck),
  •  ora come costruttivismo radicale (Heinz von Foerster, Ernst von Galsersfeld),
  • ora come sistema convenzionale di concetti,
  • ora come autopoiesi conoscenza della nostra conoscenza (Humberto Maturana),
  •  ora come teoria fisica a impronta olistica (David Bohm),
  • ora come paradigma del caos ordinato (Ilya Prigogine e la sua scuola),
  • ora come teoria fisica del caso emergente dalla natura (meccanica quantistica),
  • ora come cosmologia del Big Bang,
  • ora come modello fisico della creazione di materia out of nothing,
  • ora come platonismo matematico (Alain Connes),
  • ora come teoria delle catastrofi (René Thom),
  • ora come neurobiologia della conoscenza (Gerald Edelman),
  • ora come conoscenza voilée (Bernard d’Espagnat),
  • ora come…una qualsiasi combinazione di queste tendenze

(eventualità del resto favorita e resa possibile dal fatto che ciascuna di esse rappresenta un set eclettico di assunzioni della mente).

         Quali siano le funzioni concettuali di questa selva contraddittoria di strade che si biforcano in continuazione senza andare da nessuna parte è presto detto. Ve ne sono perlomeno quattro.

 

►Prima di tutto, rendere quasi impossibile alla gente comune una chiara comprensione delle cose. A quanto pare, la scienza ha ragionato come Sun Tzu o sulla sua scia: la situazione è confusa quindi eccellente. È l’arte di volgere gli argomenti del nemico a proprio favore. L’opinione pubblica, contrariamente a quello che le si vuol far credere, non deve poter comprendere cosa è veramente la scienza. Deve solo nutrirsi di cliché. Ciò spiega la profusione della pubblicistica popolare (per non parlare dei programmi TV dedicati alla scienza: un vero e proprio tripudio delle banalità).

 

►In secondo luogo, lo scopo della loro esistenza è quello di poter affrontare contemporaneamente una varietà di controversie. Questo le rende ogni volta possibile alternare gli argomenti e quindi in un certo senso di aver sempre ragione nei confronti di ogni eventuale impugnazione. È il vantaggio della ridondanza rispetto alla specializzazione. È infatti suo tramite che la fisica ha potuto far evolvere le sue forme di legittimazione nel corso del tempo.

 

►In terzo luogo, servono a presentare la comunità scientifica alle moltitudini planetarie come il regno della libera discussione, della democrazia intellettuale, del libero confronto dei diversi punti di vista: una sorta di idillica agorà aristocratica del pensiero in cui troneggia esclusivamente l’amore per la ricerca della verità. Un quadro, quest’ultimo, capovolto rispetto alla sua natura più autentica, in cui impera il principio d’autorità e l’arroganza, insieme d’altro canto alla frode, al crimine, ecc.: (e questa è la fonte prima dell’indegno spettacolo che ci squaderna oggi il nepotismo accademico italiota, circostanza che tuttavia prova almeno il fatto che gli scienziati non sono uomini migliori degli altri, per nulla).

 

►Infine, e sopra a tutto, motivo principale della loro proliferazione è occultare e far sparire dal novero delle cose intelligibili fino a renderla invisibile e financo inesistente la crux, eminente per la scienza, relativa allo status più autentico del suo pensiero. La sua natura integralmente apocrifa, nel sofisticato senso di Juan de Mairena, doveva assolutamente essere mediato in maniera complessa e labirintica per poter diventare irriconoscibile ed essere se possibile cancellato dalla faccia della terra. Persino Asterione, il figlio delle stelle, si perdeva nelle mille stanze del suo palazzo, figuriamoci i comuni mortali in quello scientifico! Questo esito era ed è una questione vitale per la scienza, giacché da esso dipende la sua stessa sopravvivenza tanto come ragione guida dell’Occidente e del mondo intero ormai, quanto come chiave di volta fondamentale – in tutti i sensi: militare, economico e simbolico più in generale – del mdpc.

L’intento naturalmente inconfessabile dell’intera impresa, va da sé, è quello di far convergere le differenti fittizie opinioni o interpretazioni o paradigmi verso un fine comune e un solo approdo: la tutela e la corroborazione degli stereotipi ufficiali, la presentazione della scienza nel suo complesso all’uomo della strada come conoscenza super partes e neutrale, spiegazione disinteressata e avalutativa delle grandi leggi dell’universo fisico e della natura nel suo insieme. Come si vede, il disegno complessivo è davvero sottile e si avvale di una pluralità di grandi mezzi finanziari e massmediatici (Network, Accademia, Stampa, opinion makers ufficiali, ecc.) che lo rendono irresistibile e degno della grandeur dell’Occidente e della sua fonte prima: il capitale.

Questo finale risvolto della cosa, che aggiunge al già vasto arsenale della scienza una ulteriore risorsa, ci mette in condizione di rispondere forse con migliore cognizione di causa alle sue due ultime domande relative alla <<diverse voci>> presenti all’interno della comunità scientifica odierna. Queste certo ci sono e debbono esserci per poter dar senso allo stesso effetto ridondanza, ma hanno adottato da sempre lo stesso emblema della Costituzione statunitense: E pluribus unum (e così tra l’altro ragione politica e razionalità scientifica si congiungono in un solo significativo simbolo).

Da questo punto di vista, la Love, oltre a conseguire i risultati prima visti, aggiunge anche un finale tocco surreale alla sua presenza sulla scena. Conformemente del resto alla natura delle forme fenomeniche del capitale. Non solo fa sparire alla vista degli individui i caratteri indesiderati della scienza e a presentare loro per converso, e simultaneamente, delle finzioni, ma così facendo sparisce essa stessa in quanto artefice di quei risultati, diventando in tal modo l’incarnazione postuma di un’idea di Hegel. Se la equipariamo infatti, per le delicate e cruciali funzioni che svolge, ad una sofisticata mediazione intellettuale, di essa si possono allora ben predicare gli stessi attributi della categoria principe del maestro di Stoccarda: <<ciò che è come mediatore sparisce, e così, in questa mediazione stessa, è tolta la mediazione>>. Si pone nel suo togliersi e si toglie nel suo porsi. Ergo: <<il fondamento dell’esistenza è la mediazione sparita; e viceversa solo la mediazione sparita è insieme il fondamento>>. Aveva tutte le ragioni del mondo, Hegel, a definirla astuta!

 

G.W.F. Hegel

         La Love della scienza, in pratica, ha ricalcato nel suo modus operandi e nel suo sistema d’idee lo stesso carattere delle forme fenomeniche del capitale ed ha fatto di quel processo di rappresentazione del tutto particolare la cifra del suo pensiero eclettico. Ciò le ha procurato un vantaggio evolutivo senza precedenti rispetto a tutti gli altri saperi societari (che infatti tendono a imitarne, con relativo successo a quanto pare, la logica, giustificati in questo dalla comune parentela con il loro illustre congiunto: fanno pur parte tutti della stessa famiglia!). D’altro canto, questo fatto, per converso, costituisce ovviamente un’altra prova della sua simbiosi col mdpc. Hegel, come si è visto sopra, ne è l’icona filosofica per eccellenza.

 

DD: Cosa lega, secondo Lei, la scienza alla teologia?

 

FS:

Per quanto possa apparire paradossale, penso che vi sia una corrispondenza quasi punto per punto tra i due domini. Non è stato del resto Paul Davies, l’insigne capofila della New Physics, a dirci che <<tutti gli scienziati accettano una visione del mondo essenzialmente teologica>>? Si tratta di una concordanza del resto sia dottrinale, sia istituzionale. Visti da questa ultima prospettiva, sono entrambi due regni gerarchici. Sono entrambi arroganti. Sono entrambi due regimi monocratici. Sono entrambi ermafroditi. Sono entrambi cosmopoliti. Entrambi hanno agito e agiscono in segreto. In entrambi v’è il dolo, la frode, il crimine, l’abuso. Entrambi sono sistemi di potere. Entrambi sono due regni ecumenici e internazionali. Entrambi sono due regni dei simboli: spirituali nell’una, matematici nell’altra. Sono entrambi potenti macchine dell’inganno (ho cercato di documentare questo stato delle cose nel saggio Gli inganni della propaganda intellettuale odierna).

Dal punto di vista dottrinario, invece, la scienza è la Chiesa dei laici. La teologia è la Chiesa del credente. Per poter anche solo accettare una cosa così sorprendente, bisogna uscire naturalmente dagli ordinari modi di ragionare. Quando la si è capita, caso mai ci si indigna, ma non ci si stupisce più. Del resto, è la stessa scienza a riconoscere e persino a rivendicare come un titolo di merito la parentela di sangue in oggetto.

Vale la pena a questo proposito ricordare qui l’opinione di Max Planck, con la cui opera scientifica nel 1900 ebbe inizio la fisica quantistica: <<la scienza e la religione mirano, dopotutto, allo stesso scopo, il riconoscimento di un intelletto onnipotente che regola l’universo>>. Oggi i suoi eredi, nelle persone di premi Nobel come Georges Charpak e fisici internazionali del calibro di Roland Omnès, giusto per menzionare solo due nomi di rilievo di una folta schiera altrettanto preclara, sono divenuti persino più espliciti, sostenendo che le leggi di natura di cui parla la scienza rilevano dal sacro e dal trascendente. Del resto, questi preclari rappresentanti della comunità scientifica occidentale non fanno altro che continuare una tradizione che risale, con Galileo e Newton, all’alba della loro professione. Non ha forse detto Fred Hoyle, il famoso astrofisico inglese, rappresentante eminente del pensiero occidentale, che <<la religione domina i pensieri degli scienziati ancora più di quelli dei preti>>?

In un certo senso, un qualche Divino Architetto doveva essere presupposto anche dalla scienza se questa prendeva le mosse, come ci ha spiegato in modo esemplare Thomas Henry Huxley in pieno Ottocento, da un inconoscibile ordine sovrano dell’universo che governava poi le regolarità dei fenomeni naturali e dava un fondamento legisimile agli stessi test d’esperienza, la suprema court of last resort come viene oggi definita, della dimostrazione scientifica e al mondo della vita umana. L’aspetto ulteriormente paradossale dell’intero affaire è il fatto che oggi, ad avviso di René Thom e del fisico statunitense Nick Herbert, la scienza non si distingue nemmeno dalla magia, giacché i fenomeni quantistici avrebbero messo in evidenza un’azione istantanea a distanza tra eventi fisici che annulla il tempo e lo spazio, rivelando un’interconnessione subitanea di tutto con tutto. Vivremmo, insomma, in un universo olistico in cui ogni parte è immediatamente, senza alcuna interposta mediazione, il tutto.

C’è poco da meravigliarsi del fatto che la scienza, a dispetto di tutti gli argomenti a contrario della propaganda, che rivelano solo l’esistenza di un clamoroso conflitto d’interessi, non sia affatto laica (ci si dovrebbe stupire del contrario, caso mai, visto come stanno le cose), che molti scienziati credano in Dio e uno di loro, Nicola Cabibbo, diriga attualmente addirittura la Pontificia Accademia delle Scienze con sede nella Città del Vaticano (ho descritto questo paradosso di nuovo nel mio Gli inganni della propaganda intellettuale odierna). Chissà cosa ne penserebbe oggi Galileo. Per non parlare poi di Giordano Bruno.

Anche ammesso che non sia forse confessionale, il loro Artefice è lo stesso una icona trascendente che fa parte integrante della forma mentis scientifica e nasce da questa ultima. Ed è per questa ragione più profonda, ignota al grande pubblico, che un fisico di fama internazionale come Frank Tipler ha potuto affermare che se Dio esiste, prima o poi la fisica lo troverà. La mia impressione è che non sia affatto necessario andare molto lontano per scoprirlo. Lo hanno già in casa. Dovrebbero solo guardarsi meglio intorno.

Oltretutto, non si creda che la professione di fede laica da parte di biologi, fisici e matematici, sia realmente sincera. E dico questo spezzando una lancia in loro favore, si badi bene, giacché prendo le mosse proprio dalla premessa che siano troppo intelligenti per non rendersi conto dell’effettivo stato della questione. Devono mentire all’opinione pubblica, in altre parole, proprio perché sanno come stanno le cose. È per questo che spesso e volentieri si esibiscono, navigati come sono, in alcuni saggi di maestria nell’uso pubblico, a mezzo stampa e TV di norma, della Love. Gli ultimi a cui mi è capitato di assistere li ho descritti nel saggio succitato (ma mi era già capitato di parlarne nel mio Il pensiero ermafrodita della scienza). In fin dei conti, per i singoli e la loro comunità è anche un problema di conservazione della specie: professione, cattedre, emolumenti, ruolo, prestigio, rango intellettuale, difesa a spada tratta della corporazione, sono tutti valori per i quali si può, e in un ceto senso si deve, ingannare il pubblico. Cosa diceva del resto il Grande Inquisitore di Dostoevskij al suo prigioniero parlando della <<debole schiatta>> dei comuni mortali? <<Mentiremo agli uomini per il loro bene>>. Tra parenti, del resto, ci si intende. Ma non è ancora finita.

Paradossalmente, gli scienziati che affermano che la scienza ospita nel proprio seno la presenza di Dio né si trovano in contrasto con il presunto laicismo di tanta parte della loro comunità (giacché sappiamo che quest’ultimo è solo una finzione apocrifa in cui si dissimula una identica natura), né minano affatto, cosa forse ancora più sorprendente, l’indipendenza della scienza dalle confessioni religiose. È vero, piuttosto, il contrario. Non a caso il proverbiale pragmatismo, alla bricoleur, della scienza è famoso.

L’apparente aspetto teologico della scienza non compromette infatti in alcun modo né il suo status né la sua autonomia perché esso ha il suo rovescio. Se non fosse stato così, probabilmente non sarebbe mai emerso alla luce del sole. Il sovrumano incorporato nella meccanica quantistica, la scuola dominate attualmente nella fisica odierna, ha infatti il delicato ma cruciale compito di liquidare la crux delle origini, tanto dando loro le fattezze di un inconoscibile oggetto di culto, quanto confinandole in un cielo arcano che rimarrà per noi sempre un mistero inintelligibile. Ecco il tornaconto essoterico di quelle dichiarazioni di principio. Da questo punto di vista, i fisici attuali sono il Kant dei nostri giorni (moltiplicato per la forza del loro numero e della corporazione).

Cancellare l’eminente problema rappresentato dalla fonte delle nostre conoscenze, significava e significa tuttora per la scienza scongiurare in anticipo il rischio di veder emergere la natura integralmente congetturale del suo pensiero e il fatto che esso consta di un unico, grande sistema di assunzioni indimostrabili della nostra mente. La posta in gioco di tale partita era ed è talmente elevata che si è sempre stati disposti a tutto pur di sventarla. Se fosse venuta a galla, infatti, avrebbe significato la fine della scienza come l’abbiamo conosciuta finora. Tutto sarebbe tramontato: l’oggettività in primo luogo, e a seguire tutto il folto corteo di attributi che l’accompagna (il suo carattere super partes, la sua neutralità, la sua indifferenza ai valori e agli interessi di parte, ecc.). Tutto ciò spiega ad abundantiam perché si sia fatto e si faccia continuamente ancor oggi un uso massiccio, coi grandi mezzi della propaganda odierna, della Love e del suo dotatissimo arsenale concettuale.

Tanto per dire della sottile simmetria reciproca che corre tra i due domini un questione, basti pensare al fatto che la teologia fa la stessa cosa della scienza. Anch’essa, infatti, mette all’indice dei frutti proibiti ogni eventuale pretesa dell’uomo di poter conoscere l’Altissimo o di potersi immaginare uguale a lui, perché se lo comprendesse scoprirebbe di essere lui stesso Dio. Potrebbe essere l’inizio della fine per il Cristianesimo. Di qui i draconiani divieti di Ilario di Poitiers, le mille scomuniche e i mille crimini, mai incorsi nel rigore delle leggi temporali del resto, contro questo attentato alla sacra maestà del Re dei Cieli e al suo potere sovrano.

Da questo punto di vista, si potrebbe anche dire senza andare molto lontani dal vero che la scienza è una variante dissimulata della teologia. È la teologia in abito secolare. Perché altrimenti, come ci faceva notare tempo addietro il biologo Richard Lewontin, dovremmo stare attenti alle <<imposture emergenti dall´interno delle istituzioni scientifiche>>? D’altro canto, se la teologia alberga dentro la scienza fino a fare tutt’uno col suo pensiero, si potrebbe altrettanto bene sostenere che la teologia è una forma di scienza. Pare che si abbia in effetti a che fare con un Giano bifronte o con due diversi profili di uno stesso volto. Se questa doppia identità entra irrimediabilmente in conflitto col senso comune e con l’immagine tradizionale della razionalità scientifica, ciò dipende ovviamente dalla irresistibile forza degli stereotipi che sono stai inoculati nella mente individuale in pratica col latte materno (tramite i sistemi formativi di base, l’istruzione superiore, ecc.).

Come si è visto, infatti, i cliché rendono impossibile pensare diversamente dai significati di cui constano. Hanno pressoché la stessa natura di quella che Watzlawick chiamava self-sealing logic, vale a dire dati set di spiegazioni che si sottraggono alla confutazione. Tanto più poi lo sono e insieme lo diventano quanto più sono continuamente instillati nella mente dei singoli tramite la martellante propaganda dei Megamedia (la comunità scientifica stessa, in primis, che li secerne dal proprio grembo, i grandi Network, Accademia, Stampa, ecc.).

La distinzione tra i due regni passa piuttosto attraverso le diverse funzioni che esercitano nell’ambito della riproduzione del capitale. L’una opera prevalentemente, ma non esclusivamente, nell’universo allegorico del mondo simbolico degli uomini, mettendo capo al <<dominio della loro coscienza>>, come dice il Grande Inquisitore, esercitato dalla gerarchia ecclesiastica. Un prerequisito indispensabile, questo, per poter far funzionare a pieno regime la monarchia confessionale vaticana, visto che l’uomo di fede secerne dalla propria testa il proprio pastore di anime. Da questo punto di vista, il monarca di Roma è lo specchio di se stesso, visto che riflette sulla terra un celeste potere regio reso etereo dai Sacri Testi del Cristianesimo autenticati e corroborati dai Padri della Chiesa perché quest’ultima potesse secernere dal suo seno gerarchia e autorità per poter celebrare la sovranità di Dio e dichiararla sacra e inviolabile, in modo da poter mettere nelle sue mani un governo spirituale e temporale degli uomini ricevuto direttamente dall’Altissimo. Padreterno►Bibbia-►Padri della Chiesa ►Vaticano ►Monarca romano►Dio, disegnano il circolo virtuoso di questa sorta di autopoiesi noumenica o trascendentale in cui ogni creatura di questa divina famiglia secerne se stessa e quindi l’intera parentela.

Il campo d’azione dell’altra è invece direttamente il cuore tecnologico del mondo degli affari e dell’economia capitalistica, nel delicato sistema di macchine dei processi produttivi – manifatturieri, finanziari, commerciali, ecc. – e dell’organizzazione razionale del lavoro a livello internazionale per l’estrazione maggiore e più intensa possibile di plusvalore dai produttori immediati. Senza contare la sua insostituibile funzione nell’industria degli armamenti e nel sistema di basi militari mondiale, necessari complementi anche dell’imperialismo odierno a guida USA e a quanto sembra motore bellico dello stesso sviluppo economico.

Nondimeno, se per un momento facciamo astrazione da queste circostanze, si può comunque constatare il fatto che i rapporti tra scienza e teologia sono cablati da numerosi altri ponti. Dal punto di vista della dottrina, ad esempio, hanno in comune la natura circolare ed ermafrodita dell’animo umano, come diceva Cusano, l’inganno perpetrato a danno di terzi, la beatificazione delle origini a scopi di censura preventiva, la disinvolta presentazione della loro natura apocrifa come ricerca oppure rivelazione della verità, l’altrettanto disinvolta descrizione di se stessi come regno della conoscenza oggettiva e della comunione con l’assoluto, e chi più ne ha più ne metta.

Nondimeno, certamente una cosa singolare è l’atteggiamento di scienza e teologia di fonte al libero arbitrio (LA) dell’uomo. Qui più che la constatazione di un terreno condiviso da entrambe, davvero significativa è la dimostrazione  surreale del modo, simmetrico e difforme ad un tempo, in cui viene trattato questo comune presupposto.

La prima infatti, bene o male, benché abbia alternato diverse volte nel corso della sua storia determinismo e indeterminismo della natura, lo celebra oggi come una caratteristica addirittura <<ontologicamente irriducibile>> della nostra specie, come ha dichiarato Frank Tipler, sulla scia del resto della comunità scientifica nel suo insieme, e ne fa in definitiva l’apologia definendolo con il fisico quantistico Henry Stapp <<l’essenza dell’uomo>>.

Ciò facendo, d’altra parte, non si rende conto di provare i suoi legami di sangue col mdpc, giacché i soggetti sovrani (<<sovrano è colui che decide>>, dice Schmitt, l’ideologo di questa logica) sono precisamente creature per eccellenza del capitale e i funzionari attivi a cui viene demandata la funzione di riprodurre l’intero sistema. D’altro canto, non si creda che l’interpretazione in causa sia innocente come potrebbe sembrare. Anche questa medaglia, come tutto nel mondo contemporaneo, ha il suo rovescio. La presentazione della libertà di scelta come causa sui ha infatti il compito di cancellare qualunque altra spiegazione della sua esistenza e di fare in pratica delle decisioni individuali, che la nostra mente secerne come un bruco il suo filo, l’unica fonte delle condotte dei singoli. Così, un effetto diventa causa di se stesso e sparisce nel nulla, insieme con la sua dipendenza da tale fondamento, la ragion d’essere che lo ha messo al mondo e gli ha conferito il ruolo suddetto. Soluzione invero molto comoda, questa, per poter scongiurare in anticipo qualunque sempre possibile, ma altamente indesiderata, scoperta dell’effettivo stato delle cose.

La seconda, invece, condanna il LA dei soggetti con la predestinazione e tramite Sant’Anselmo attribuisce tutte le nequizie che ne discendono all’essere umano stesso, facendone un’altra dimostrazione e una prova provata del peccato originale che l’affligge (assolvendo nel contempo il Padreterno, e tramite Lui la Chiesa, da ogni corresponsabilità). Il Grande Inquisitore al contrario, invertendo le cose, affibbia a Dio la colpa di aver concesso agli uomini il LA e quindi lo accusa di essere la causa indiretta delle nostre sventure. Di qui la sua drastica terapia per la nostra debole schiatta (per di più sediziosa) che ha sempre provocato delle calamità naturali attraverso l’esercizio di quella sua facoltà di scelta.

Sarebbe del tutto inutile far notare all’Altero Vegliardo, naturalmente, che anche tutte le sue deliberazioni discendono in linea retta, paradosso dei paradossi, da un’arbitraria decisione del suo intelletto. L’esecrazione del LA, in altre parole, prende le mosse da un decreto del soggetto! Come tutto del resto nel dominio della teologia, visto che l’intero creato è per i Sacri Testi un libero atto di creazione da parte di Dio. D’altro canto, lo stesso originario passaggio del Cardinale nel campo del <<tremendo spirito>> è avvenuto sulla base di un suo deliberato proposito e di una sua autonoma volontà. Del resto, la logica della teologia è dispensata dal rispetto del principio di coerenza. Altrimenti non sarebbe quello che è.

D’altro canto, la sua prima invettiva gli era indispensabile per poter corroborare le sue funzioni temporali e la sua stessa autorità spirituale, giacché l’esistenza comunque di una Chiesa e di una gerarchia talare sotto l’insegna del <<terribile spirito>> aveva comunque bisogno di un gregge da guidare con un nodoso bastone pastorale. In pratica, pur invertendo di segno la natura del dono di Dio, il Grande Inquisitore riesce comunque a scaricare sugli uomini tutta la scelleratezza delle loro azioni e a fare della stessa esistenza del Soglio di Pietro, e quindi indirettamente dell’Altissimo e di un sistema temporale di potere, un elemento necessario della loro vita ecumenica. Di fatto, ottiene gli stessi risultati del precedente disegno pur prendendo le mosse da un’apparente atto d’accusa, sommamente eretico a prima vista, nei suoi confronti. Sarà un caso che alla fine il Grande Vecchio liberi il prigioniero?

 

Liturgia ortodossa

 

Insomma, per l’uno Dio ci dà in dono il LA ma siamo noi che ne abusiamo. Per l’altro, Dio ha sbagliato a darci il LA perché non ne eravamo degni e ne abbiamo approfittato. Gira e rigira, positiva o negativa che sia la concessione del LA, i colpevoli di tutto, vittime designate diventate rei e peccatori, alla fin fine siamo sempre noi. E in tutti e due i casi il fine è sempre lo stesso: legittimare l’esistenza di un regno confessionale che secerne se stesso tramite Dio e necessita di una moltitudine di fedeli che giustifichino e nello stesso tempo siano in grado di secernere le sue funzioni episcopali. Se non hai sottomano ciò di cui hai bisogno, inventatelo! Anche nella teologia evidentemente ha corso, alla grande, una Love specifica per i bisogni della gerarchia ecclesiastica!

La Chiesa, come si vede, ha fatto del LA, che la corona di Roma esercita liberamente nei confronti del proprio gregge e delle sedizioni (chiamate una volta eresie) che nascono di tanto in tanto dal suo seno, la ragion d’essere della propria giurisdizione spirituale, nel mentre lo ha privato, così come ha fatto la scienza, di qualunque altra origine che non sia quella divina di Dio, in maniera che non lo si possa più discutere. Del resto, facendone una potenziale insidia, le cui conseguenze nefaste ricadono in ogni caso esclusivamente sugli uomini, lo ha ulteriormente sottratto ad ogni altra eventuale analisi problematica, giacché senza la tutela del Sacro gli individui rischiano sempre di incamminarsi sulla via della perdizione. Il Divino ovvero la Chiesa, in questo caso, agisce dunque due volte in una. Prima conferendo uno status cultuale al LA, poi facendo del male e dei tormenti che questo secerne dalla propria natura il fondamento di un ritorno nelle braccia di Dio per poterne scansare in qualche modo le conseguenze funeste. E così tutto va per il meglio nel migliore dei mondi teologici possibili!

Ovviamente, anche la soluzione in questione, per quanto sia forse più perfida ancora di quella scientifica, non fa altro che mostrare, al di sotto dei suoi diafani veli, i profondi legami che la stringono alla nascita del capitale e alla inedita logica ricorsiva che quest’ultimo ha reso possibile creando a sua volta tutte le precondizioni sociali perché potesse allignare nel cuore degli uomini, per usare qui una significativa allegoria del tenebroso Cardinale. D’altro canto, se la ragione scientifica emerge dal mdpc e porta impressa nei suoi sistemi di pensiero la sua impronta, anche la teologia, poiché è scienza in forma teologale, non potrà che subire la stessa sorte e rivelarsi per quello che è sempre stata in quest’epoca: una potente macchina spirituale al servizio, oltre che dei suoi selezionati funzionari vaticani, della riproduzione della società capitalistica di cui è divenuta creatura.

 

DD: Qual è il rapporto tra politica e accademia?

 

FS:

Alla luce anche di quello che si è detto prima, direi che è un rapporto intimamente funzionale. A patto che con politica si intenda, come ho precisato in precedenza, la DAP, con tutti i distinguo già visti. Le classi dominanti occidentali, sulla scia dell’aristocratico Joseph De Maistre, hanno infatti ben presto compreso che alle loro società erano indispensabili dei sistemi d’istruzione inferiori e superiori in grado sia di formare il loro futuro personale dirigente, sia soprattutto di preformare anche la mente dei dominati, fornendo loro una cultura di base conforme ai loro interessi di lungo periodo. Detti sistemi, oltretutto, rappresentano una evoluzione ancora più sofisticata del pensiero del conte di Chambéry.

Da questo punto di vista, la nascita della scuola pubblica, al contrario di quanto si potrebbe e vorrebbero farci pensare, non è mai stata un semplice fringe benefit del sistema capitalistico e del suo sviluppo, un frutto della civiltà o una conquista delle classi popolari. La questione non è riducibile a questi termini, che sono sostanzialmente fuorvianti. Anche questa medaglia invero, immancabilmente, ha il suo rovescio.

Ogni volta infatti che imparavano a leggere, scrivere e far di conto, le moltitudini assimilavano anche tutti gli argomenti della propaganda, impliciti ed espliciti, che venivano somministrati loro. E non parlo solo delle ideologie di fine Ottocento e inizio Novecento (il letale quartetto di De Maistre: religione, patriottismo, tradizione e pregiudizio). È tutta la loro visione della realtà naturale e sociale che riceveva il suo imprinting dai sistemi di conoscenza che venivano inoculati nella loro testa. Pensare e poter pensare solo entro i confini del loro mondo predefinito faceva tutt’uno.

Osservate le cose in retrospettiva, ci appare logico dal punto di vista dei dominanti che dovesse essere così, giacché il loro disegno partoriva dei soggetti che sia nel presente sia nel futuro avrebbero potuto ragionare solo con il set prefissato o preconfezionato di categorie – scientifiche, storiografiche, filosofiche, etiche, politiche, ecc. – che si era propinato loro.  Se si è il sistema, ben difficilmente se ne potrà uscire. E difatti, benché le passate generazioni dell’Occidente abbiano attraversato diverse congiunture storiche e siano saltate ogni volta in epoche differenti, e quasi tutte drammatiche, le nuove (e noi con esse) sono ancora al suo interno. Purtroppo lo saranno anche quelle avvenire se non si imbocca una nostra originale road not taken (non ancora almeno).

Se poi si guardano le cose dal punto di vista dei sistemi accademici propriamente detti, sostanzialmente le università e gli atenei per i figli della borghesia in ascesa o già costituitasi in classe dominante, essi sin dalla loro nascita sono stati concepiti del resto come istituzioni elitarie (gerarchia, rapporti di potere, dipendenza dal Monarca di turno, rango accademico, ecc.) a cui spettava il compito di sfornare solo funzionari professionali – soprattutto scientifici, in quanto divenuti indispensabili allo sviluppo industriale ed economico – atti a secernere e a clonare poi, tramite i loro fenotipi studenteschi che avrebbero figliato a loro volta i propri padri, la cultura ufficiale della società, la sola ammessa. Di pari passo con queste sue funzioni, l’accademia in questione svolgeva ufficiali compiti di supporto anche del potere regio presso l’opinione pubblica internazionale.

Esemplare a questo proposito il caso di Max Planck e dell’intera facoltà di Berlino, umanisti in testa, in occasione dello scoppio del primo conflitto mondiale. Come è noto, infatti, i 93 preclari scienziati berlinesi che firmarono il famoso “Aufruf an die Kulturwelt” (Appello al mondo della cultura), redatto dallo scrittore Ludwig Fulda ma suggerito dalla intelligence della marina tedesca nella persona del capitano Heinrich Lohlein per conto di un ufficio della propaganda di guerra del governo di allora, lo fecero con plurimi intenti politici. Dalla apologia del Kaiser, innanzitutto, alla esaltazione dell’assoluta unità tra il militarismo prussiano e la cultura tedesca, dalla difesa della civiltà europea contro le <<Orde russe>> alla unità tra popolo ed esercito (<<Deutsches Heer und deutsches Volk sin eins>>), per non parlare poi della difesa della nazione nei confronti di <<mongoli e negri sguinzagliati contro la razza bianca>>.

 

Aufruf der 93 deutschen Wissenschaftler „An die Kulturwelt!“ vom Oktober 1914,
mitunterzeichnet von M. Planck

Max Planck

         Facciamo astrazione, per un momento, dal fatto che questo documento della propaganda di guerra era la risposta prussiana ad analoghe iniziative delle altre grandi potenze occidentali (si veda a questo proposito Arthur Ponsonby, Falsehood in war-time. Propaganda lies of the First World War). Vale solo la pena notare che, oltre a tre premi Nobel per la fisica e la chimica, congiunti con altri scienziati loro colleghi del resto, l’elenco dei firmatari comprendeva anche il nome di Ernst Haeckel, uno dei fondatori della biologia evoluzionista, che nel corso dell’Ottocento si presentava invece come un “materialista” darwiniano e così ad esempio era conosciuto da Marx ed Engels.

Ora, lo storico statunitense Daniel Gasman, nelle sue numerose monografie dedicate alla questione (tra le tante, è da leggere almeno The scientific origins of National Socialism), ha ampiamente dimostrato che il naturalista Haeckel è stato uno dei precursori ottocenteschi dell’ideologia nazista e come tale si è distinto per darle una sorta di imprimatur scientifico, nel solco del resto di una tradizione tipicamente occidentale se si pensa, senza andare troppo lontano, al medico tedesco Johann Friedrich Blumenbach (sul quale si veda almeno <<Il geometra della razza>> di Stephen Jay Gould). Non ci sono dunque solo Wagner, l’aristocratico conte e diplomatico Joseph  Arthur de Gobineau (a sua volta stretto amico di Alexis de Tocqueville!), Houston Chamberlain (genero di Wagner e figlio di un ammiraglio inglese educato in lingua francese a Ginevra, un altro rampollo della casta militare imperiale di sua Maestà britannica!), ecc., alle spalle del regime di Hitler come si potrebbe credere e probabilmente si è creduto leggendo solo William Shirer e il suo The rise and fall of the Third Reich. A monte si intravede anche la lunga ombra della scienza.

Con la evoluzione dei media tradizionali (stampa, cinema, radio e poi nel periodo postbellico soprattutto grandi Network globali e Internet), il ruolo e le funzioni dell’Accademia (Akka) nella formazione delle nuove generazioni sono divenuti ancora più dirimenti perché adesso i Megamedia (MeMe) odierni hanno in pratica il monopolio dell’informazione e quindi decidono in anticipo come e intorno a che cosa la gente comune può ragionare. Decidono persino quello che può conoscere e il modo in cui può farlo. Se si pensa al fatto che i ¾ dell’output mondiale dei media è statunitense, si avrà forse un’idea più precisa della cosa. Si ricordi, inoltre, che i MeMe in questione han sempre mutato pelle in simbiosi con la massiccia presenza di agenti a contratto CIA al loro interno (per una documentazione di questo fatto,mi permetto di rinviare il lettore al mio Il porto delle nebbie). Si è trattato, in altre parole, di una evoluzione pilotata e non di un mutamento spontaneo.

In questo contesto, l’Akka statunitense e poi a seguire occidentale ha ulteriormente messo a disposizione del potere politico i suoi servigi, come cento anni prima hanno fatto <<der 93 deutschen Wissenschaftler>> (come recita l’Aufruf), in occasione degli avvenimenti dell’11 settembre 2001, su cui magari ci soffermeremo più avanti. In pratica, tutta l’elite che conta del sistema accademico statunitense agli inizi del 2002 ha pubblicato un documento – What Were fighting for – di sostegno alla guerre di aggressione scatenate dall’allora presidente Bush Jr. contro il Medio Oriente, con argomenti tra l’altro che sembrano la fotocopia dei loro esimi colleghi d’oltreoceano, adattati ovviamente ai nuovi tempi (ho commentato questo scritto nel mio 11 settembre e <<full spectrum dominance>> del 2006 per cui non vi insisto oltre). Della serie, quando la voce del padrone chiama…

Nondimeno, giusto per toccare con mano il peso della scienza nel mondo contemporaneo, il famoso Leviatano contro cui mise in guardia Eisenhower nel 1961 alla fine del suo mandato, che però al contrario di quanto si crede di norma ancora oggi riteneva indispensabile mantenerlo e rafforzarlo, è divenuto oggi il complesso militare-industriale-accademico statunitense, in cui un ruolo preminente viene svolto naturalmente dalla elite scientifica (attualmente, infatti, ben l’80% dei fisici usciti dal sistema universitario negli Stati Uniti lavora oggi nella più grande economia militare dell’intero pianeta!). Del resto, il fatto è stato comprovato, oltre ogni ragionevole dubbio, come si dice, anche dal fenomeno illustrato dalla studiosa Ann Finkbeiner nel suo The Jasons. The secret history of sciences postwar elite.

Alla luce di questo complesso di elementi, si può forse meglio capire come l’Akka sia divenuta una istituzione basilare nel sistema di potere odierno. Incaricata di selezionare all’inizio il personale dirigente dei dominanti, con la scolarizzazione di massa e l’accesso all’istruzione superiore anche dei ceti popolari, è arrivata infine a preformare perfino la mente delle moltitudini e ad intervenire direttamente anche negli affari socio-politici della società, prendendo apertamente partito a favore dei suoi occulti committenti (il tutto di concerto ovviamente con le altre agenzie del consenso fabbricato ad arte).

Oltretutto, bisogna tener presente alla mente il fatto che sul Vecchio Continente, perlomeno dal secondo dopoguerra in poi, sono state le floride Foundations statunitensi a ricostruire da capo a fondo i sistemi universitari europei, selezionando così, tramite i singoli governi, tutto il personale universitario e no degli atenei nazionali. E si badi bene che non è stato loro necessario procedere alla formazione e alla cooptazione poi di tutti i nuovi docenti nel sistema in via di costruzione. È stato semplicemente sufficiente mettere a capo dei diversi atenei (nel senato accademico, nei consigli di facoltà, ecc.), e in particolare dei più importanti, i loro fiduciari (Rettori, Presidi di facoltà, ecc.) e di conseguenza far dirigere poi i differenti istituti interni alle diverse facoltà da loro agenti di secondo grado per così dire (ordinari, associati, assistenti detti comunemente portaborse, allievi-pupillo, ecc.), che hanno poi innescato una reazione a catena cooptando a loro volta i propri successori. Il sistema continua a funzionare del resto allegramente nell’antico modo avito ancora oggi.

D’altra parte, questo sistema si rivelerà cruciale quando nel corso dei decenni postbellici ad esso, sulla scia delle stesse misure adottate negli Stati Uniti e su loro preciso input, verranno affidati compiti di mascheramento degli agenti dei servizi di intelligence che nelle diverse congiunture verranno chiamati a svolgere nuovi ruoli di rilievo nell’ambito dei vari gruppi eversivi (“di destra” e “di sinistra”). Si tratta di un salto di qualità reso possibile anche dal meccanismo sopra descritto. E comunque si ricordi che nella stagione della “strategia della tensione”, tanto per intenderci, i sottufficiali del generale Dalla Chiesa frequentavano i corsi universitari, si laureavano, diventavano docenti essi stessi: diveniva insomma impossibile distinguerli dagli studenti ordinari. Oltretutto, questi agenti rappresentavano il personale di un solo apparato dello Stato, mentre come è noto quando si ragiona di servizi di sicurezza si ha a che fare con numerosi apparati, tra l’altro tanto istituzionali quanto occulti (come ad esempio <<Lanello>> la cui storia, per quanto possibile, è stata ricostruita e documentata, almeno in parte, da Stefania Limiti nel volume LAnello della Repubblica).

Come ci hanno spiegato gli studiosi del fenomeno – in volumi ad esempio quali Il golpe di via Fani di De Lutiis; Il sequestro di verità di Aa. Vv.; Il Noto servizio di Aldo Giannuli –, diversi intellettuali del sistema accademico sono stati trasformati in agenti di tipo superiore aventi compiti d’indirizzo e di elaborazione ideologica all’interno delle organizzazioni di cui avevano preso la guida insieme ad altri agenti, più operativi e quasi sempre coinvolti in fatti di sangue, con i quali formavano un team coperto. Sopra ad essi, ovviamente, la mente politica, anch’essa a forma di piramide, con più teste e di natura internazionale, che governava il gioco complessivo tirando le fila dell’insieme e tessendo la trama, una vera e propria ragnatela a forma di labirinto, dei suoi disegni strategici.

 

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