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Intervista di Davide Dell’Ombra a Franco Soldani. Seconda parte

Pubblichiamo la seconda parte della intervista di Davide Dell’Ombra a Franco Soldani. Continua la demistificazione dei cliché che l’Occidente secerne come una tartaruga le sue uova. Se cercare vuol dire dubitare, come diceva Novalis, niente meglio della severa messa in discussione degli odierni luoghi comuni intorno al mondo in cui viviamo pare promettere la scoperta del nuovo.

DD: 11 settembre 2001. Per Lei cosa significa quell’evento? Va collegato ad altri?

 

FS:

Certamente nella storia del Novecento vi sono almeno due altri casi che ricalcano, in parte perlomeno e su scala individuale questa volta, il modus operandi utilizzato nel 2001. Mi riferisco in primo luogo all’assassinio del presidente Kennedy nel 1963, in merito al quale una prima lettura, giusto per diradare le nebbie in cui si è subito avvolto l’avvenimento, dovrebbe essere, a mio avviso, il volume di David Lifton, Best evidence. Disguise and deception in the assassination of John F. Kennedy.

Il caso è esemplare perché mostra all’opera i multipli depistaggi messi in moto dai vertici politici e militari dell’epoca, nonché dal personale delle loro agenzie di intelligence, di cui paradossalmente il presidente statunitense era l’autorità ufficiale massima, il Commander in Chief dell’intera macchina bellica dello Stato, per accreditare un’unica versione di comodo dei fatti e dei responsabili dell’accaduto. Tra l’altro, affidando ai loro agenti il compito di alterare la scena del crimine, manomettere le foto e i filmati, condurre false autopsie, predisporre persino la soppressione dell’imputato (Lee Oswald), fabbricare prove false, insomma una serie di multipli crimini ulteriori nel crimine maggiore e per dare a quest’ultimo il suo tocco finale: in proposito è indispensabile vedere il volume di Tom Wilson, A dark, deeper truth.  Oltretutto, qui si dimostra come il personale politico anche ai più alti livelli sia spendibile a piacimento da parte dei veri dominanti che agiscono dietro le quinte, come lo stesso Disraeli ci ha in precedenza detto a chiare lettere, e certamente lui doveva intendersene!

L’altro fatto ci riguarda più da vicino ed è rappresentato dal caso Moro. Le strategie nel frattempo, quindici anni dopo, in ragione del mutato contesto, si sono affinate, tramite la “strategia della tensione” sono state create delle condizioni al contorno propizie e i 55 giorni del sequestro hanno permesso ai perpetratori (Perp) una gestione mediatica dell’intera vicenda senza pari forse fino a quel momento per impatto emotivo e manipolazione della pubblica opinione (le cui uniche fonti erano quelle dei MeMe del tempo: Stampa e TV sostanzialmente). Per sperare di poter capire qualcosa di quel lontano avvenimento, ignoto alla nuove generazioni ma che ebbe allora un’eco internazionale prolungata, è indispensabile leggere e compitare i numerosi volumi che Sergio Flamigni ha dedicato all’affaire. Si vedrebbero all’opera anche qui, fondamentalmente, gli stessi meccanismi utilizzati a Dallas. E d’altra parte è logico, se la regia dietro il delitto, come è ragionevole dedurre dalle numerose prove disponibili e dalla documentazione ormai accumulatasi nelle mani dei ricercatori, è stata statunitense.

Basti dire che uno degli “esperti” antiterrorismo chiamato dall’allora ministro dell’interno Francesco Cossiga nei Comitati di crisi istituiti al Viminale, di concerto naturalmente con l’allora primo ministro Giulio Andreotti, era un uomo del dipartimento di Stato USA: Steve Pieczenick. Ciò è logico se si pensa al fatto che qualcuno della DAP atlantica doveva pur supervisionare l’operazione. Quanto questi funzionari di alto rango siano competenti e continuino a svolgere le loro funzioni, con invidiabile professionalità, anche quando sono fuori servizio, ci è ulteriormente dimostrato poi dal fatto che nella saggistica che secernono continuano a fuorviare e depistare l’opinione pubblica fabbricando anche a posteriori nuovi mondi di fumo. Come conclamato esempio di questa circostanza si veda l’esemplare saggio di Emmanuel Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro, che contiene la ricostruzione degli eventi da parte dello stesso Pieczenick, corroborata a sua volta dalle ricostruzioni degli stessi brigatisti! Chiamereste voi la nebbia a chiarirvi le cose?

Si può tuttavia avere un’idea dello spartiacque che ha rappresentato se si pensa al fatto che la sua tragica conclusione con l’uccisione dell’ostaggio, essa stessa del resto sia altamente simbolica sia necessaria per sopprimere la testimonianza oculare del presidente DC, estremamente pericolosa per i Perp, tanto ha permesso al suo partito di rimanere al potere per almeno venti anni ancora, quanto ha infine portato alla dissoluzione del Pci, che era uno degli obiettivi primari dell’intera cospirazione. Il suo lungo declino, si noti la cosa, sia è cominciato allora, sia è stato innescato e poi protratto dagli stessi dirigenti comunisti dell’epoca, che con le loro opzioni pubbliche hanno coadiuvato i loro liquidatori senza in apparenza comprendere né il disegno a loro danno, né l’agire in segreto dei soggetti politici istituzionali con cui interloquivano. Esemplare, a questo proposito, è la lettura de libro di Ugo Pecchioli, all’epoca alto dirigente del Pci, Tra misteri e verità. Storia di una democrazia incompiuta. La storia di questo suicidio assistito o eutanasia dissimulata, per dirla in termini clinici, deve tuttavia ancora essere scritta.

Tanto per dire del carattere paradossale e innaturale della cosa, bisogna ricordare che lo stesso Cossiga, uno dei registi italiani dell’affaire Moro, durante il sequestro invitava a pranzo al Ministero dell’Interno la stampa per <<parlare di tutto>> amabilmente, ci fa sapere Valentino Parlato del “Manifesto”, presente a quegli incontri, come in una seduta conviviale. E la tradizione è continuata anche dopo la conclusione della vicenda, se è vero come è vero che nella primavera del 1980 Berlinguer incontrò ancora Cossiga in una cena di lavoro riservata a casa di Pecchioli per prendere conoscenza delle sue spiegazioni in merito alla sua condotta. Non è surreale che il segretario del più grande partito di opposizione dell’epoca e il responsabile di un quotidiano che si definiva “comunista” pendano dalle labbra di uno dei Perp per reperire informazioni atte alla comprensione di un crimine di Stato? Chiedereste mai voi ad un falsario conclamato denaro sonante?

Personalmente, vedo quattro sole possibili spiegazioni del fenomeno. O gli interlocutori dei Perp erano degli emeriti ingenui, ma allora non si capisce come abbiano fatto a ricoprire quei ruoli di rilievo (e poi un Candido nel Novecento pare davvero inverosimile per definizione). Oppure i Perp sono stati di un’astuzia infinita, tale da far sparire dalla scena visibile il loro reale status e le loro effettive funzioni, per cui neanche un Einstein della “politica” avrebbe mai potuto capire le cose. Oppure ancora vi è stato un tacito patto di connivenza tra “sinistra” del tempo e Perp che prevedeva anche la simulazione di conflitti d’opinione inesistenti, nel più classico stile della opposizione fittizia. Oppure, infine, una chiara comprensione del reale stato della questione è stata resa impossibile dalla cultura pregressa degli attori sociali che avrebbero dovuto invece avere chiare le condizioni al contorno dell’affaire. In effetti, se si è il sistema, la sua facciata istituzionale in questo caso, pare difficile poterne uscir fuori o veder bene dentro la sua logica più interna. Tanto per non privarci di nulla, si potrebbe in ultimo anche contemplare la possibilità che vi sia stata una alchemica combinazione delle diverse alternative. In effetti, non si escludono affatto l’un l’altra. Lascio al lettore la libertà di scelta.

Certo è che a leggere le argomentazioni di tali personaggi in volumi come Abbiamo ucciso Aldo Moro o Tra misteri e verità, giusto per citare degli esempi eclatanti, pare davvero di assistere ad una pièce di Ionesco, tanto le cose diventano via via sempre più surreali, in cui i Perp, al servizio dell’Alleanza Atlantica, si trasformano in testimoni obiettivi degli eventi e i destinatari ultimi delle loro macchinazioni diventano i più zelanti supporter di queste ultime, come provato dalla famosa “linea della fermezza” sostenuta dal Pci di allora <<per la salvezza dello Stato democratico>>, come ebbe a dire Giorgio Amendola (sostenuto da Ingrao e altri) in occasione di una riunione della Direzione di questo partito il 16 marzo 1978.

Per quanto riguarda il 911, così definito dai ricercatori statunitensi, direi che i Perp si sono comportati da degni epigoni del pensiero occidentale. L’hanno persino portato a vette finora ignote (sia criminali in primo luogo, sia paradossalmente filosofiche). Nel senso che hanno superato persino il vescovo Berkeley e il suo albero inesistente per l’osservatore che non l’ha udito né visto cadere in mezzo alla foresta (cosa che in fin dei conti semplicemente segue da esse est percipi). I Perp, infatti, proprio mentre le Twin Towers (TT) si dissolvevano a mezz’aria han fatto vedere e udire agli osservatori quello che non esisteva, vale a dire un crollo gravitazionale spontaneo a seguito degli impatti e dei conseguenti incendi. Tutto questo si comprende meglio credo se si fa mente locale al fatto che una schiera di documenti e di ricerche ha ormai ampiamente dimostrato la natura completamente falsa della spiegazione ufficiale.

 

Del resto, han potuto fare quello che hanno fatto, naturalmente, sia perché hanno mascherato la disintegrazione totale dei due enormi edifici con lo schianto (presunto finora) degli aerei contro le TT, la congiura degli attentatori arabi, il sequestro degli aerei in volo, ecc., sia perché hanno fabbricato da subito, prima di ogni indagine forense, la pancake theory grazie ai professionisti dell’Accademia (la PT è una creatura del Prof. Thomas Eagar, docente di materials engineering al famoso MIT di Boston), solleciti e pronti al servizio (non per niente sono profumatamente pagati!), sia perché hanno subito mobilitato a supporto della spiegazione ufficiale un colossale apparato della propaganda fornito di grandi e imbattibili mezzi: Network globali, stampa, radio, ecc., insomma l’impero planetario dei MeMe, che ha finito per imprimere nella mente dell’opinione pubblica internazionale (ma gli arcana imperii russi e cinesi sapevano invece tutto!) un’unica versione degli avvenimenti e col cancellare qualunque altra possibilità.

Questa constatazione, tra l’altro, ci segnala una profonda trasformazione del potere dei dominanti mediante il nuovo ruolo e la nuova dimensione assunta oggi dai MeMe. Loro tramite, infatti, e attraverso il fatto che ¾ dell’output mondiale dell’informazione viene da questa fonte, è divenuto possibile per l’elite al comando delle società occidentali preordinare il futuro, trasformare il domani in un oggi virtuale e anticipare il tempo avvenire, liberandoli dai numerosi vincoli che prima ne condizionavano scelte e azioni.

         Alla luce di questi mutamenti, la storia oggi non è più, se mai lo è stata, quella che si immaginavano ai loro tempi Marx ed Engels: stati di cose non voluti da nessuno e risultati finali di previ processi per così dire rappresi in un dato sistema di fatti emersi da rapporti di forza antecedenti e dai conflitti tra le forze in campo. Tanto meno la storia può essere oggettiva (neanche come risultante di un parallelogramma geopolitico o sociale, come se la immaginava Engels oppure come prima di lui la pensava dall’altro lato Marx in quanto realtà sensibile e mondo dell’esperienza di contro al grande Pensiero Metafisico dell’Occidente: Divino, Logica, Teologia, Provvidenza, Volontà di Dio, ecc.) oppure dovuta a processi contingenti di sviluppo (aleatori, non programmati, occasionali, casuali, ecc.) o a un incontro/scontro di certi soggetti politici nazionali e internazionali con in testa certi disegni geopolitici (Imperi, Stati, Eurasia VS America al giorno d’oggi,  ecc.). Tanto meno la storia poi è mai stata quell’oggetto indipendente – tutto fatti e dati – che la storiografia ufficiale si è immaginata (prendesse poi questa o meno la forma della “lunga durata”, un profilo événementiel, ecc.). Tutt’altro nel mondo odierno. Da questo punto di vista, la nottola di Minerva, nel frattempo fattasi scaltra, inizia il suo volo alle prime luci dell’alba piuttosto che sul far del crepuscolo! Evidentemente anche gli animali allegorici della filosofia evolvono e apprendono dall’esperienza, proprio come autentiche specie naturali.

Oltretutto, non si può davvero fare a meno di notare il fatto che il grande Edward Carr, decano degli storici anglosassoni contemporanei, già negli anni ’60 del secolo scorso aveva chiarito che <<l’interpretazione dell’osservatore predetermina ogni fatto della storia>>, per cui semplicemente <<the commonsense view of history is, of course, untrue>>: <<The belief in a hard core of historical facts existing objectively and independently of the interpretation of the historian is a preposterous fallacy>>.

Da questo punto di vista, simmetrico del resto a quello emerso dal seno della scienza e della filosofia, da un lato, ogni cosiddetto stato di cose visibile nel mondo sociale – qualunque esso sia sul piano storico: dalla “questione ebraica” alla cosiddetta finanziarizzazione dell’economia – porta l’impronta del soggetto che ne rende conto, e la sua spiegazione di conseguenza incorpora quindi tutte le sue idiosincrasie, i suoi variopinti pregiudizi, e non tutti gradevoli, le sue ideologie, la sua cultura, l’intero suo sistema d’idee pregresso in altre parole.

Se tutto ciò annulla l’apparente indipendenza e oggettività dei cd fatti, dall’altro lato per contro mette al loro posto le interpretazioni preconfezionate dell’osservatore di turno (anche se quasi sempre l’ideologia si incarica poi di presentarle come conformi al reale stato delle cose). Ma se questi, a sua volta, rappresenta un soggetto la cui mente (insieme alla sua esistenza) è stata in origine preformata dal capitale, il vincolo in questione finisce col diventare addirittura doppio oppure, se si vuole, la natura predeterminata del suo pensiero raggiunge un suo secondo livello in genere invisibile all’intelletto ordinario.

In ultima analisi, allora, siamo messi di fronte perlomeno a tre circostanze:

sia i fatti storici non esistono,

►sia ogni oggetto o avvenimento reale è preordinato dal soggetto,

►infine, la stessa sua natura è l’effetto di un’altra causa a lui ignota e lui stesso è l’incarnazione di una differente ragion d’essere.

In merito a tale questione, oggi gli Stati Uniti, tramite la voce di Karl Rove (consigliere politico di Bush Jr.) e Lloyd Blankfein (CEO della Goldman Sachs, la banca d’affari più grande del mondo), davvero sono un caso esemplare (ho brevemente illustrato la logica di questi due funzionari del capitale nel mio Le lezioni del capitale). La storia, nelle condizioni attuali del XXI secolo, può e deve essere fatta emergere by design dai grandi attori globali sulla scacchiera planetaria, perché oggi i dominanti debbono poter contare in anticipo su condizioni al contorno decise da loro stessi e aventi le caratteristiche volute o meglio conformi ai loro scopi. Non ci si può più affidare, se mai lo si è fatto nel passato, all’attesa delle cose o allo sviluppo spontaneo degli eventi e al fortuito.  Il futuro piuttosto deve nascere adesso, deve essere previsto e anticipato – portato alla luce e realizzato ora, nel mondo presente del tempo attuale – come se lo si stesse già vivendo ed esso scorresse sotto i nostri occhi. Così ragionano le classi al potere, la nuova aristocrazia finanziaria e industriale odierna, e con i grandi mezzi di cui al momento dispongono, in primis il monopolio dell’informazione tramite i Megamedia e i loro servizi di Intelligence (supportati da Echelon, sistemi satellitari di spionaggio, informatori a migliaia, personale specializzato – diplomatico, politico, miliare, tecnico, ecc. – nei 6 continenti, ecc.), possono agevolmente conseguire i loro fini strategici.

Non è più necessario adesso aspettare gli eventi né intervenire a posteriori dopo che sono accaduti per indirizzarne il corso. Neppure è necessario provare a farli accadere in modo conforme a dati fini. Fatto salvo il fatto che tutte queste opzioni sono ancora sul tavolo delle possibilità per i dominanti, che come navigati bricoleur non scartano mai niente e tengono a disposizione tutte le opportunità a loro portata (e sono una legione!), la novità è data oggi dal fatto che le condizioni al contorno di cui hanno bisogno vengono di norma efficacemente predisposte, in anticipo e by design, dagli stessi MeMe e dalle agenzie di intelligence, che in simbiosi creano dei mondi di fumo –  id est appropriati scenari artificiali studiati e programmati a tavolino – atti al raggiungimento di dati fini.

Detti scenari contengono poi sia gli ingredienti giusti per poterli conseguire (apparenti dati reali, fabbricazioni di apparenti fatti, nascita di organizzazioni tipo Al Qaeda, uso di agenti professionali e asset tipo Bin Laden, Jibril oggi in Libia oppure il CNT, ecc.), sia la loro legittimazione preventiva di tipo giuridico e diplomatico-politico (voti del Consiglio di sicurezza, appoggio del Segretario generale ONU, solidarietà atlantica Nato, ecc.). Non vi è chi non veda la novità introdotta da queste trasformazioni.

Mediante il monopolio mondiale del flusso di informazioni, i dominanti USA  e più in generale dell’Occidente preformano e predeterminano sia gli eventi di cui hanno bisogno al momento, svincolandosi così tendenzialmente perlomeno dai limiti della congiuntura indotta ad arte o emersa dalla storia (con la sua aura aleatoria e i suoi rischi impliciti), due fonti non completamente affidabili o molto meno dei nuovi mezzi, sia l’opinione pubblica metropolitana e internazionale, che potrà ragionare solo con le notizie fornite e vedere solo immagini funzionali, sia infine mandano messaggi criptati (per noi) e ad un tempo espliciti (per loro) ai potenziali concorrenti esteri (i paesi Bric o qualunque altra coalizione di volenterosi) che insieme a loro e contro di loro (e talvolta in alleanza con loro, a seconda degli interessi in gioco, con la flessibilità indifferente a qualsiasi etica tipica della Realpolitik) calcano la scena planetaria.

Gli stessi soggetti hanno poi bollato, per completare l’operazione e dargli un autentico finish conclusivo, qualunque altra interpretazione alternativa dei fatti, per quanto documentata essa fosse, come fondamentalmente insane e paranoica, in modo da confinare gli scettici e chiunque avesse dei dubbi anche solo ipotetici o li manifestasse anche solo nel suo animo nel campo della malattia mentale e della devianza, della instabilità emozionale (questo è Barnard!), in maniera da screditarli del tutto (anche con la derisione, la compagna di merende della insania) in maniera preventiva e confinarli nell’ambito della psicopatia e dell’esoterico. Questo tra l’altro è un aspetto multiplo in sé della questione.

Secondo la Dr. Judy Wood, infine, l’intero affaire potrebbe avere anche un altro, più sottile e inquietante risvolto. Se fosse vera la sua interpretazione, infatti, se fosse vero che le TT sono state rase al suolo e disintegrate dall’uso di una qualche Direct Energy Weapon (DEW) in possesso dei militari, allora anche l’alternativa spiegazione della loro distruzione completa tramite demolizione controllata con esplosivi convenzionali (termite, termate, ecc.) diverrebbe una copertura per i Perp e tutti i controversi segnali emersi dalle testimonianze dei vigili del fuoco, di semplici cittadini, di testimoni oculari e dalle riprese video (booms di esplosioni, squibs, simmetria delle disintegrazioni, velocità di caduta, e i numerosi altri fenomeni osservati), diventerebbero delle prove a protezione e tutela paradossalmente dei Perp! Davvero una logica diabolica. Intanto il lavoro della Wood va avanti e nei prossimi mesi vedremo se le sarà possibile approdare a nuovi risultati. Consiglio intanto a tutti di leggere il suo Where did the Towes go?

Nondimeno, i fini geopolitici e strategici che i Perp volevano raggiungere mettendo in piedi questa infernale macchinazione a danno delle moltitudini mondiali e a monito anche dei potenziali concorrenti emergenti (India, Cina, Russia, Brasile) sono sufficientemente chiari: main mise sulle risorse energetiche, occupazione manu militari di intere aree geografiche strategiche, potenziamento ed espansione delle loro basi militari nel mondo, obiettivo questo di per sé già fondamentale visto il peso e l’importanza dirimente delle industrie belliche nell’economia complessiva USA (la più grande del pianeta e decisiva per la realizzazione del plusvalore su scala globale), ecc.,

Nel far questo, i Perp ci hanno quanto meno messi di fronte ad una serie di rivelazioni cruciali. Ci hanno infatti squadernato davanti agli occhi perlomeno due effetti: sia sul piano giuridico-costituzionale interno, facendo a pezzi la loro Costituzione e qualunque altra immaginaria Grundnorm occidentale, sia sul piano internazionale, riducendo in stracci il diritto internazionale e calpestando qualunque altro sistema normativo vigente nei rapporti tra le nazioni (Convenzioni di Ginevra, ecc.), imponendo così a tutta la comunità internazionale il ricorso alla forza nella (presunta) risoluzione dei conflitti come ai bei tempi degli imperi con l’annessa coorte di tutti i crimini contro la pace e il diritto delle genti conseguenti.

Oltretutto, i Perp ci hanno mostrato anche come l’ordine legale apparente che governa la convivenza civile nazionale e le cd regole democratiche del gioco politico (e l’aggressione alla Libia è stata per noi italici, grazie al Presidente della Repubblica, il supremo custode della Costituzione: ah l’ironia della storia!, un’altra prova eclatante di tutto ciò) ospiti sempre al proprio interno, e la veda nascere dal proprio grembo come una sua seconda natura, la sovversione periodica, occasionale e determinata dalla congiunture storiche attraversate dal capitale, del proprio intangibile sistema, presunto avalutativo e indifferente ai valori (id est interessi di parte), di principi e norme giuridiche (la famosa macchina del diritto di Kelsen).

In pratica, in questo contesto, i Perp ci hanno portato davanti agli occhi la logica pura di potere sottesa (e sempre in stato di veglia) alla convivenza civile, la decisione infondata e arbitraria che regge l’intera impalcatura formale della società, lezione che vale più di mille trattati costituzionali e giurisprudenziali (i cui Manuali tra l’altro ignorano sempre, non a caso evidentemente, se gli accademici e i cattedratici sono parte in causa dello sporco gioco e sono anch’essi il sistema, come ha dimostrato ultimamente anche Giannuli nel suo Come funzionano i servizi segreti, esistenza, ruolo e funzioni degli arcana imperii nella costituzione degli Stati e del potere politico occidentali).

La forza del disegno dei Perp si vede anche negli effetti indotti dagli eventi nel mondo intellettuale marxista, dei progressisti, dei liberal-democratici, ecc. Tutti questi soggetti sociali, infatti, si sono schierati subito con la spiegazione ufficiale, circostanza che ci mostra a chiare lettere quanto la logica e la natura del mdpc sia in grado di fabbricarsi – sia intenzionalmente tramite i propri agenti a pagamento (agente di Iª fascia), sia involontariamente, attraverso la cultura di origine e la forma mentis pregressa dei soggetti odierni guidati dalle loro buone intenzioni e funzionanti quindi in modo spontaneo e naturale come agenti (di IIª fascia) del sistema – il proprio dissenso funzionale interno oltre che il proprio consenso attivo delle masse e delle moltitudini planetarie.

Conformandosi alla versione governativa, in modo attivo tra l’altro, tutti quegli ambienti sia hanno supportato l’interpretazione del governo Bush, sia hanno bollato anch’essi, di riflesso, gli scettici e le interpretazioni alternative come insane e paranoiche, sia si sono allineati alla versione di comodo dei Perp e sono dunque, nel migliore dei casi, caduti di peso e in toto nel loro inganno proprio indossando le vesti migliori: quelle dei critici intransigenti del sistema odierno delle cose (che senza saperlo – e questo nella migliore delle ipotesi – servono gli interessi del potere che in apparenza deplorano e stigmatizzano), e il fatto che ad una parte dell’opinione pubblica mondiale appaiano sotto queste (s)mentite spoglie rinforza e corrobora per i Perp l’effetto a loro favorevole, in un virtuoso circolo vizioso a forma di spirale (giacché tali individui si presentano di norma come gli alfieri della democrazia e dei diritti dei popoli, i difensori della forma costituzionale dello Stato e del sistema repubblicano).

Da questo punto di vista sono le personificazioni perfette del famoso aforisma di Hegel: di un potere che sparisce mentre si pone. Per i marxisti di tutte le scuole e di tutte le variopinte tendenze immaginabili, vale più o meno la stessa cosa, con laggravante che questi personaggi si presentano sulla scena come fieri avversari del capitalismo, come gli oppositori più intransigenti del nuovo imperialismo statunitense, e perciò si definiscono antagonisti, “rivoluzionari” (da operetta), dissidenti, ecc. ecc., e così facendo servono ancor meglio dei precedenti i loro segreti padroni. Cosa si può pretendere di più da un soggetto che mentre combatte strenuamente il proprio acerrimo nemico fa di tutto (per di più, al colmo del paradosso, usando le stese armi fornitegli proprio da quest’ultimo) per spianargli la strada e preparare il proprio interramento? Nulla evidentemente. E così sia e così è stato. Da questo duplice punto di vista, sia gli apparenti critici dell’Occidente ma fautori della democrazia e riformisti/miglioristi odierni, sia gli inflessibili e tetragoni oppositori del capitalismo, in tutte le loro salse, si sono rivelati del tutto funzionali (e in molteplici astuti modi e variegate forme) ai disegni delle classi dominanti attuali. Un bel risultato davvero!!

 

DD: Ancora nel Suo ultimo libro, Lei dà a intendere che la società capitalistica muove i primi passi ben prima del momento storico in cui Marx l’aveva individuata nei suoi scritti. In certi altri punti, Lei asserisce che, comunque, l’intera formazione culturale dell’Occidente è stata viziata dalla mistificazione: «Dall’antica sapienza greca delle origini del mito, dal pensiero presocratico fino alla filosofia classica ellenistica e oltre, l’intera ragione dell’Occidente si è presentata sulla scena sociale della storia con tutte le fattezze di una ragione apocrifa che nelle sue diverse narrazioni degli inizi […] ha sempre messo al mondo una colossale finzione intellettuale tesa a scongiurare la scoperta dell’integrale natura conoscitiva delle maestose rappresentazioni iconografiche della sua fertile immaginazione onirica» (pag. 170). Questo è proprio un esempio del primo aspetto della Sua riflessione cui all’inizio ho fatto cenno. Ne aveva in parte discusso nel volume del 2009,  ma potrebbe spiegare meglio qual è il valore ‘onirico’ su cui la conoscenza dovrebbe secondo Lei fondarsi? E la filosofia sarebbe dunque un sistema preformato integralmente dal capitale?

 

FS:

Cominciamo dalla prima questione, vale a dire dalla conoscenza onirica: che cos’è e che cosa significa. Questo primo oggetto, ignoto al grande pubblico e di cui non si sente mai parlare per la verità, incorpora nel proprio seno diversi turning point, per così dire, e diversi livelli. E tutti dirimenti.

In primo luogo, onirica è la spiegazione stessa della scienza ed emerge da questa fonte. Sono cioè gli stessi addetti ai lavori e i suoi professionisti, in particolare l’italiano Giulio Tononi e lo statunitense, premio Nobel per la medicina, Gerald Edelman ad aver definito la scienza un processo onirico e allegorico di conoscenza. Diciamolo con le stesse parole dei due scienziati: <<Ciò che sogniamo è ciò che conosciamo, e ciò che possiamo conoscere è solo ciò che possiamo sognare>>. Ho prodotto un’ampia documentazione di questo fatto nel mio Il pensiero ermafrodita della scienza. Ciò vuol dire, in breve, che tutto quello che conosciamo nasce dalla mente e riguarda i suoi oggetti di pensiero: comprendiamo sempre meglio solo quello che emerge da questa fonte e tutto il nostro sapere consta solo di stoffa cognitiva, per quanto il sano buon senso della vita quotidiana sembri dimostrare il contrario. Nondimeno, a dispetto del loro apparente conflitto, i due punti di vista sono paradossalmente del tutto complementari.

L’interpretazione in causa, del resto, era stata anticipata già alla fine degli anni ‘60 dalla scuola dell’autopoiesi di Maturana. Questi infatti già all’epoca ci aveva spiegato che <<niente esiste al di fuori dei nostri domini di conoscenza>>. Oltretutto, se è vero che <<senza osservatori non esiste nulla, e con gli osservatori tutto ciò che esiste esiste nella spiegazione>> del soggetto, ecco che il mondo intero nel quale siamo immersi non può essere nient’altro che <<un’entità cognitiva>> e un universo di distinzioni partorito dalla nostra fervida immaginazione concettuale.

Dunque, che le creature del nostro pensiero, tutti i grandiosi sistemi d’idee dell’Occidente, abbiano natura onirica è una statuizione che ha origine dall’interno della comunità scientifica odierna e da questa riceve il suo imprimatur.  In secondo luogo, tuttavia, anche questa è una medaglia addirittura con un suo doppio verso.

Il rovescio positivo della tendenza testé vista è infatti la completa liquidazione della crux relativa alla ragion d’essere specifica del nostro pensiero e dunque la cancellazione dei suoi legami col capitale.

Nella misura in cui la conoscenza sia vien vista emergere esclusivamente dalla nostra testa e constare solo della sua natura biologica, sia vien vista secernere l’intero mondo interpersonale degli individui e mettere nelle loro mani, tutta intera, la responsabilità personale e umana di quello che realizzano, ecco che non vi è più alcuna necessità di andare alla ricerca di altre cause (né fisiche né sociali). In tale affresco, anzi, queste ultime tanto vengono fatte coincidere con il determinismo biologico del nostro organismo, quanto quest’ultimo diventa poi a sua volta la fonte da cui emergono la società e i legami interpersonali tra i singoli, in un completo capovolgimento delle cose.

         Per quanto sia sofisticata, questa impostazione ha tuttavia anche un suo rovescio altamente indesiderato per la scienza. Essa implica infatti la fine del realismo fisico e di ogni materialismo ontologico, un evento che fa sparire nel nulla la conoscenza oggettiva della natura e di conseguenza uno dei miti originari più importanti di tutta la cultura occidentale. Probabilmente, il costo è stato giudicato troppo alto ed ecco perché il paradigma di Maturana è stato accantonato dalla comunità scientifica attuale in favore delle scuole di fisica ancora dominanti. Tuttavia, perlomeno due cose sono evidenti: tanto il fatto che l’autopoiesi, e con essa la variante di Edelman, restano parte integrante della logica versatile della scienza, quanto il fatto che la natura ricorsiva del pensiero emerge comunque anche dal seno della scienza ufficiale e dal di sotto dei suoi stereotipi. La maschera non riesce a coprire completamente il volto.

Stando le cose come stanno, in terzo luogo, l’impronta onirica della conoscenza, nel significato sopra precisato, costituisce anche un prezioso segnavia per l’eventuale nascita di un’altra forma di pensiero in grado di distinguersi dai primi due punti di vista sopra messi in rilievo, dai fini che si volevano raggiungere loro tramite e dai  rompicapo che l’impresa ha sollevato. Anche se l’accezione scientifica di conoscenza onirica è del tutto falsa in ogni caso, resta pur sempre vero il fatto che anche ogni forma di realismo fisico, classico o quantistico, marxista o liberal-borghese, rappresenta oggi un principio di ragione del tutto fittizio – e tale dimostrato paradossalmente dalla stessa scienza – rispetto ai significati che gli sono stati attributi dalla tradizione occidentale. Il che spiana la strada alla ricerca di un nuovo fondamento del pensiero. Esiste in effetti un’altra, più specifica, accezione di conoscenza onirica o anche ricorsiva.

In quarto luogo, infatti, il carattere onirico delle creature della nostra mente non si identifica affatto né con la loro natura solo cognitiva, né soltanto allegorica. In un certo senso, è possibile andare oltre sia il timore di David Bohm di veder sparire tutto nella perfetta coincidenza di pensiero ed essere, sia la parallela e complementare, benché apparentemente contraria, tendenza di Maturana a vedere in quella uguaglianza l’inizio di ogni cosa. Inutile dire che tale mira avversa anche chi avrebbe voluto fare dell’onirico-cognitivo l’unica fonte di tutto quello che c’è.

In pratica, è possibile sia smascherare e portare alla luce gli inconfessabili intenti della logica versatile della scienza, sia dar vita ad una differente interpretazione della conoscenza nell’epoca del capitale che non abbia più niente a che fare con le fittizie spiegazioni prima prese in esame. Al contrario, tanto deve diventarne la critica più radicale, quanto deve tracciare una netta linea di confine rispetto alla loro impostazione. Benché si presenti quasi come una mission impossibile, se ne può quanto meno delineare il profilo.

In ultimo, infatti, si può dire che la conoscenza onirica nasca dalla originaria identità tra uomo e natura. La loro relazione, si badi bene, non è di analogia, somiglianza, concordanza, equivalenza e simili. Sono proprio la stessa cosa. Ciò vuol dire che non c’è nessuna differenza di genere tra loro. Non si distinguono. Sono come due genomi assolutamente coincidenti. Sono uno in due. E tuttavia dal loro grembo, proprio come nel regno vivente e la differenziazione cellulare, secernono anche la loro unità, vale a dire dei loro interni distinguo da cui poi emerge una realtà visibile – e dunque una storia (con le sue tipiche epoche discontinue) – tipicamente umana. Nella ovvia impossibilità di poter dimostrare, argomenti alla mano, come si dice, una tale interpretazione, mi limito a tratteggiarne i contorni generali.

Se li si trovasse esotici rispetto all’ordinario modo di ragionare, si avrebbe perfettamente ragione. Lo sono senz’altro. Del pari, se risultassero ardui da intendere. Se invece risultassero oscuri sarebbe solo colpa mia. Anche in questo caso, però, ci sarebbe poco da meravigliarsi. Come diceva Novalis, infatti, <<ogni nuovo inizio è maldestro>>. Tanto più, si potrebbe magari aggiungere, quanto più i nostri incerti passi calcano per la prima volta una terra incognita e forse un altro continente dello spirito. Vediamo. 

I caratteri dell’identità

Luomo è natura personificata, ma la natura stessa, di cui il nostro pensiero è figlio, è una nostra assunzione, è una creatura cognitiva della nostra mente. Se la natura sincarna negli uomini, il nostro pensiero la mette al mondo. Allunisono. A questo punto, conviene compendiare questi numerosi passi di danza in una sorta di balletto intellettuale. Nel modo seguente         La Natura si personifica nell’individuo e si rende umana. S’incorpora dunque anche nel suo pensiero, nei mondi onirici che questo secerne: dunque anche in quella Natura che esso assume come esistente. Ne è il figlio, ma anche il padre. Il soggetto, per contro, si oggettiva tramite il suo originario status biologico e la sua appropriazione delle cose materiali di cui si nutre e mediante cui si riproduce: le due cose in una. La Natura s’incarna negli individui e loro tramite diventa una creatura senziente. D’altra parte, gli uomini, in quanto materia ordinata e organizzata, diventano a loro volta un organismo naturale. Sono la Natura nel suo aspetto umano. La Natura diventa soggetto, ma l’uomo si oggettiva e assume lo stesso status della sua fonte. È natura in forma secolare, ma il soggetto, attraverso la successione delle generazioni, ne è l’incarnazione sempreverde. Con le loro gambe la Natura cammina, ma con la loro specie gli uomini la fanno diventare sia pensiero e sistemi di conoscenza in progress, sia società e organizzazioni umane in sviluppo: tramite le loro forme di convivenza la fanno nascere e rinascere in continuazione ed evolvere nel loro mondo. Il tutto d’un solo colpo.

 

  1. 1.     Noi la personifichiamo,

 

  1. 2.     ma per contro suo tramite ci oggettiviamo,

 

  1. 3.     noi la spieghiamo ai nostri consimili e la rendiamo dunque intelligibile anche a se stessa,

 

  1. 4.     noi la presumiamo reale e dunque assumiamo che esista,

 

  1. 5.     noi diciamo o presumiamo di esserne lincarnazione,

 

  1. 6.     ergo: siamo noi a presupporre tutto quanto e quindi la possiamo conoscere solo tramite il nostro pensiero,

 

  1. 7.     infine anche la distinzione tra ordine sovrano e fenomeni empirici, di cui abbiamo bisogno per poter supporre di vivere in un mondo ordinato e dare un senso alla nostra vita, è figlia di un nostro atto di ragione,

 

  1. 8.     persino se supponiamo che non esista, la natura deve esistere, giacché lo stesso cervello che secerne quellenunciato (Minsky: <<la mente è quello che il cervello fa>>), in quanto è materia organizzata, è obbligato a presupporre un principio dordine alla base della sua esistenza,

 

     1. 9. del resto, in quanto secerne dei pensieri razionali e intelligibili da parte degli altri uomini, e nel contempo fa esperienza di se stesso e del proprio essere materiale, il soggetto è costretto a immaginare lesistenza di un logos sovrano delluniverso: mondo ordinato, intelletto logico e specie umana neanche esisterebbero probabilmente senza quel sostrato eterno.

         Se parliamo noi, parla la Natura. E nella misura in cui questa parla, siamo noi che parliamo. Non vè modo di distinguerci. Dire che noi siamo la Natura o che la Natura è noi equivale a dire la stessa identica cosa. Ognuno è se stesso e lintero rapporto, e anche il proprio sviluppo, la propria evoluzione discontinua nel corso del tempo. Il divenire umano si chiama storia, ricorrente emergere di date epoche specifiche della società e periodica formazione discontinua di sistemi di convivenza sociale. Quello della natura si identifica coi grandi cicli del tempo e le successioni cronologiche osservabili nel mondo reale. Da questo duplice punto di vista, è ammissibile che lo sviluppo storico conosca delle cesure e dei salti depoca da uno stadio allaltro. Che io lo deduca del resto da un esame del passato geologico, paleontologico, paleogeografico, biometrico, ecc., della terra e del vivente oppure da unanalisi dello sviluppo sociale è in fin dei conti la stessa cosa.

         Il reale evolve di sicuro in forme discontinue e dunque è possibile che nel corso delle epoche passate sia emersa una società con caratteristiche peculiari del tutto differenti rispetto a quelle pregresse e che ne hanno preceduto il debutto sulla scena del mondo, e anche rispetto alle condizioni preliminari che ne hanno innescato la nascita. Questa formazione economico-sociale del tutto specifica, connotata da propri processi di riproduzione interni e mai visti prima in Occidente, è precisamente il mdpc. È dunque logico che la sua interpretazione faccia emergere delle categorie del tutto originali e con caratteristiche che non potevano esistere in periodi anteriori. Altrimenti non sarebbe una società specifica. Questo spiega anche perché le sue caratteristiche siano così ardue  da intendere e quando le si presenta nel corso della dimostrazione esse appaiano agli occhi degli osservatori, in genere, sotto vesti surreali e a prima vista incomprensibili tanto sono inconsuete e differenti dal mondo ordinario della vita quotidiana degli individui (che sono precisamente una personificazione della sua ragion dessere più intima, della logica più profondail principio determinate del capitaleche ne governa nascita, riproduzione e tendenziale tramonto: probabilmente è anche per questo che in generale resta ostico a tutti capire a fondo le cose e immaginarsele differentemente, con mente differente).

Insomma, a quanto pare esistono dunque almeno cinque (5) fondamentali distinguo entro l’identità uomo-natura:

 Un cartogramma di sintesi

Se si tengono presenti queste sofisticate correlazioni, allora si può dire che mentre con la sua attività cognitiva disegna mondi della mente, in un certo senso l’uomo crea l’universo. In questa accezione determinata (non come il vaso sotto le mani del vasaio):

►gli fornisce un affresco cognitivo in cui il soggetto comprendendo se stesso,  nella misura almeno in cui secerne i prodotti della sua mente in complessi quadri di pensiero, spiega simultaneamente la natura in quanto è materia fisica incarnata in un dato organismo vivente: tramite noi la Natura si osserva allo specchio della propria ragione, del suo più intimo logos sovrano senza che questo disegno sia mai completamente realizzabile;

► d’altra parte, riproducendo se stesso mediante l’assimilazione dei materiali indispensabili alla sua esistenza bio-fisica evoca in vita nuovamente la natura, ne perpetua i grandi cicli materiali (demografici e storici) e rende possibile in continuazione la prima attività intellettuale, il proseguimento e la successione in progress dei nostri/suoi sistemi di conoscenza, in pratica all’infinito su scala umana (ovviamente se non avvengono catastrofi o estinzioni di massa della nostra specie).

D’altro canto, se a questo punto prendiamo in considerazione la seconda domanda –  La filosofia sarebbe dunque un sistema preformato integralmente dal capitale? –, la risposta non può che tenere conto di quanto venuto in precedenza alla luce del giorno. Non solo la filosofia è, oggi, integralmente preformata dalla logica del capitale sin nel suo midollo osseo, come qualunque altra disciplina della società odierna del resto, ma sin dai suoi inizi è sempre stata un inganno conclamato a danno degli uomini.

Nondimeno, come ormai ci è noto, è necessario distinguere. Una cosa è la filosofia classica delle origini. Un’altra, del tutto diversa, è quella attuale. Soprattutto da quando si è professionalizzata ed è divenuta una disciplina accademica, cioè stabilmente integrata nell’ordine gerarchico e cattedratico del sapere ufficiale. Nelle condizioni date, non c’è scampo di norma, poiché è il sistema e non una sua parte relativamente autonoma. Sappiamo, credo, cosa si debba pensare allo stato attuale delle cose dell’Akka.

Il Logos originario dell’Occidente con i suoi quattro significati fondamentali – 1. Principio di coerenza, 2. Principio dell’intendersi reciproco; 3. Ordine del mondo, 4. Pensiero supremo di pensiero – ci si presenta come la sintesi e la fonte di un programma concettuale insito sin dagli esordi nella esistenza e nello sviluppo della civiltà classica.

Perlomeno dalla fine dell’epoca arcaica (VII secolo a.C.), prima con Parmenide ed Eraclito e in seguito soprattutto con Aristotele e l’Ellenismo, via la prova ontologica di Sant’Anselmo, fino alla Summa teologica di Tommaso d’Aquino e la Scolastica più in generale, e poi ancora con Cusano per arrivare a Galileo e Newton, proseguire con gli Illuministi e, via i sensisti (Condillac, Cabanis, ecc.), concludere infine con i materialisti del Settecento (Helvetius, La Mettrie, d’Holbach, ecc.), i positivisti dell’Ottocento e il loro scientismo – per marcare solo con alcune pietre miliari significative un processo millenario –, l’intera cultura delle nostre società non è mai stata altro che una ininterrotta narrazione del falso e una consumazione senza fine del dolo a nostro solo danno.

Non è ovviamente che detto sviluppo sia stato una linea retta senza alcuna discontinuità di rilievo. Al contrario. Quando con la cosiddetta rivoluzione scientifica del Seicento e l’alba del modo di produzione capitalistico – non a caso evidentemente, se è vero che per Marx il capitale <<inaugura unepoca>> intera nella vita dell’Occidente – i saperi hanno cominciato a professionalizzarsi e istituzionalizzarsi (nascita della Royal Society nel 1662, della Académie des Sciences nel 1634, ecc.), le condizioni al contorno si sono persino inasprite, giacché la produzione di cultura, ora soprattutto scientifica, è stata sin da quel momento consegnata nelle mani di un establishment accademico che ne ha acquisito il monopolio, paradossalmente ufficializzando l’inganno e rendendolo persino legale e conforme a diritto.

In questa congiuntura, tra l’altro, persino i grandi tenori del passato sono stati incorporati nel nuovo sistema e sono stati trasformati, malgré eux, in rappresentanti e alfieri della nuova mistificazione, in archetipi del sapere razionale per eccellenza e classici della retta ragione (lo stesso Marx, del resto, definirà lo Stagirita <<un gigante del pensiero>> ). Per provare a respirare un’aria più salubre, non ci resta che consegnarla in blocco alla pattumiera della storia, per quanto iconoclasta possa sembrare questa opzione. Come in tutti gli addii definitivi e meditati, nessun rimpianto, se non quello di non averlo fatto prima. Berreste voi forse un bicchier d’acqua fresca dalle mani di chi vi ha avvelenato i pozzi?

L’aspetto paradossale dell’intero affaire, come nel caso anche della scienza, è dato tuttavia dal fatto che il logos classico ha finito col secernere imposture fino a constare solo di queste per ragioni evolutive ed ecologiche. Si è infatti presentato sulla scena delle società arcaiche come una specie naturale dal punto di vista intellettuale. Si è dunque trovato subito a confronto, per poter sopravvivere e riprodursi, con un ambiente circostante già occupato all’epoca da temibili competitori, dal pensiero selvaggio in generale: mitologia, cosmogonia, animismo, teogonia. Per poter conseguire in qualche modo un successo evolutivo, si è dovuta servire, proprio come fanno gli organismi viventi col mimetismo dei diversi generi, dell’inganno iniziale, mentendo perfino a se stessa e poi agli altri. Nel far ciò si è comportata proprio come una moderna teoria scientifica alla Bachelard: ha dovuto prima demolire per poter poi far posto alle sue nuove costruzioni dello spirito.

Qui conviene però fare un’altra distinzione. Nella filosofia originaria, i classici hanno seminato nei loro scritti molti elementi che ci fanno comprendere la natura fittizia dei loro pensieri. Vale qui quello che Borges diceva della letteratura: <<Noi abbiamo sognato il mondo. L’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, onnipresente nello spazio e fisso nel tempo; ma abbiamo consentito nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdo per sapere che è falso>>.

Da questo punto di vista, il logos classico, così come la scienza odierna, non è un blocco di acciaio e qualcosa traluce sempre dal suo interno. È come se a volte, mentre i classici e gli scienziati ci descrivono la loro attività intellettuale, insieme a loro parlasse sotto traccia e a volte in modo esplicito, in doppia voce, anche un loro istintivo alter ego più critico: la voce della verità che emerge, spinta alla luce del sole da un senso di colpa inconfessabile, dal loro animo più profondo.

Ovviamente, lo si può capire e intendere anche se solo per un attimo si è sfuggiti al suo charme, se ci si è sottratti in qualche modo al suo incanto e sortilegio. L’unico problema, come ci ha spiegato Thom (e lo scienziato francese si definiva un aristotelico!), è che se non si ha dapprima il concetto di un oggetto, neanche lo si riconoscerà.  Oltretutto, per i classici era un problema di sopravvivenza di una specie appena nata. Per potersi imporre sulla cultura pregressa delle loro società, dovevano prima di tutto mentire a se stessi e credere (proprio come fa un devoto nei confronti della fede) che la nuova ragione discorresse di oggetti realmente esistenti e distinti dal suo ordine di pensiero, per quanto questi ultimi fossero concepiti in termini di inesprimibile, ineffabile, indicibile, ecc.

E l’aspetto oltremodo paradossale della cosa è che dovevano essere presentati così, giacché la loro natura onirica doveva essere sprofondata nell’inconoscibile affinché le sue origini dalla nostra mente potessero sparire dalla scena e diventare invisibili, neanche pensabili da parte nostra, un divieto salvavita necessario alla nuova razionalità nascente che si è somministrata da sola le sue cure parentali. Altrimenti la loro creatura non avrebbe neanche visto la luce. Dunque, ammesso che credessero in quello che dicevano, fossero cioè in buona fede, mentivano senza saperlo. Se no, a maggior ragione dovevano fingere per poter condurre in porto un’ impresa che in un certo senso faceva epoca, perché permetteva di far entrare l’Occidente, in parte almeno, in un mondo più secolare se così si può dire rispetto al suo passato (evento che forse connota il passaggio dalle comunità agrarie, coi loro riti magici ed esoterici legati ai cicli della terra, alla polis e alla vita urbana, in cui certo degli antichi ambienti naturali esisteva ben poco).

Nondimeno, probabilmente in maniera non intenzionale, ma indotto a ciò dalle circostanze della sua nascita, coi suoi stessi argomenti il logos occidentale ci addita anche una verità sottostante che preme da sotto la superficie per emergere alla luce del sole (e Aristotele senza volerlo, o volendolo?, ce ne rende edotti col suo motore immobile, che è “pensiero di pensiero”). Si tratta di un’avvertenza criptica che ci vien data comunque, di un segnale o di segnali in codice che ci vengono inviati: è la nascita potenziale di un altro pensiero. Oltretutto, non bisogna dimenticare che è anche la scienza stessa a farci sapere quelle cose, a mettere a nudo la sua natura più profonda in una sorta di inconscio atto mancato. In questo senso, essa stessa prefigura il suo futuro tramonto, per ora ovviamente solo virtuale (ma quando avverrà veramente, solo la sorte lo sa).

Del resto, non si creda che l’inganno abbia solo forma intellettuale e si abbigli soltanto delle vesti della filosofia e della scienza. Anche un’altra potente agenzia lo secerne come un bruco il suo filo di seta. Il potere politico dei dominanti, infatti, come si è visto, quotidianamente produce dei mondi di fumo che intenzionalmente e by design avvolgono la vita degli individui in una fitta nebbia per rendere la loro esperienza nel tempo e nella storia sociale un viaggio nell’ignoto, tra l’altro sotto le mentite spoglie di un realismo dell’esistenza tanto fittizio quanto ahimè efficace. Se poi si fa mente locale all’universo simbolico della teologia, i giochi sono fatti.

Tuttavia, se quello che si è detto sopra vale forse per i classici, non vale più per l’attuale stato delle cose. Ciò è logico in fin dei conti se si pensa all’esordio nella storia del mdpc. L’accademia e il mondo professorale dei cattedratici, gli odierni scolastici, non ha alcun interesse per la conoscenza, tanto meno ovviamente per la verità. Sono lì per svolgere altre funzioni. Tutto il resto non gli compete. Nondimeno, come diceva Marx degli economisti (o forse pensava a se stesso?), ogni tanto qualche singolo <<può soggettivamente elevarsi>> al di sopra della palude, ma rappresenta pur sempre l’eccezione che conferma la regola.

Anche nei dipartimenti odierni di filosofia senza distinzione di specialità, così come tra i diversi individui che li frequentano e li dirigono, vige un sistema di potere che governa la vita della comunità e impone a tutti le sue regole arbitrarie, le sue priorità, i suoi piccoli e grandi ricatti, il suo malcostume, gli interessi privati e di parte, persino l’illecito e financo il crimine. Sono dati del resto desunti anche dalla cronaca e dall’attualità. Non è una contraddizione in termini che questa filosofia (ma forse sarebbe meglio definirla in altro modo) parli di amore per la verità e discetti di etica? E se è vero che ex falso quodlibet, non dobbiamo dedurne che anch’essa, infrangendo il principio di coerenza, si condanna da sola a confermarsi e a rivelarsi soltanto un sistema di imposture?

E questo, si badi bene, discende da quello che realmente, nella vita e nel dominio dell’esperienza, la filosofia è, non quello che di solito viene somministrato all’opinione pubblica, un’immagine che non corrisponde in niente agli stereotipi che essa stessa secerne dal proprio seno per coprire, con una foglia di fico, le sue nudità. E non è affatto questione di disciplina. La stessa cosa, infatti, avviene nella scienza, come hanno ampiamente documentato e dimostrato i diversi volumi di Judson, Broad-Wade, Ruesch, ecc. A dispetto del fatto che, come ha tenuto a precisare Ann Finkbeiner, <<nel mondo della scienza le regole siano basate sulla logica>>. Decisamente agli scienziati non manca la vena umoristica!

Se poi la si mette a confronto con quello che ha detto un fisico statunitense della propria professione –  <<Science isn’t. It’s just us boys>> – allora le cose si inaspriscono ancor più, giacché gli uomini di cui consta oggi la filosofia (e la scienza) sono precisamente quelli sopra descritti. A questo punto, <<beato chi crede>>, come dice il poeta, <<che la realtà sia quella che si vede>>.

Giusto per aggiungere paradosso a paradosso, in fin dei conti, la court of last resort della scienza falsifica completamente lo status sia della fisica attuale, sia dell’odierna filosofia, giacché è l’esperienza stessa a mostrarci e a provare che entrambe non corrispondono affatto al loro Selbstporträt. Se oltre a questi dati di fatto desumibili dalla realtà che abbiamo sotto gli occhi, si prendono in considerazione le ragioni dottrinarie, per così dire, anche se l’analisi in questo caso diventa più impersonale, le condizioni al contorno cambiano ben poco.

Sin dal suo esordio sulla scena dell’Occidente, la filosofia ha mentito prima di tutto a se stessa e poi anche ai suoi fruitori o interlocutori.  Anche senza voler andare troppo lontano, basti pensare al motore immobile di Aristotele (forza motrice trascendente dei nostri cieli mondani) o <<pensiero di pensiero>> (in questa sua formula essoterica lo Stagirita ci rivela l’effettivo status del suo ordine sovrano) oppure al mito della caverna e al Mondo delle Idee di Platone, il quale non poteva non sapere che questo suo cielo intellettuale era una creatura del suo pensiero (e anche se non lo sapeva mentiva ugualmente a se stesso e a tutti gli altri). Ammesso e non concesso che i classici dell’epoca fossero uomini migliori degli altri, del che è lecito dubitarne, fosse anche solo per un elementare principio intellettuale di precauzione (vedi ad esempio il programma di eugenetica di Platone nella sua Repubblica e il suo appello al segreto per poterlo gestire nella migliore maniera possibile all’insaputa dei dominati!).

Del resto, se persino la scienza, il regno della conoscenza oggettiva e impersonale per eccellenza dell’orbe terracqueo ha a suo fondamento e consta di un intero set di assunzioni della mente e di creature apocrife della nostra testa fatte di materia onirica, si potrà mai sostenere poi che esiste qualcosa come un presunto materialismo ontologico oppure un altrettanto immaginario realismo fisico? Se la mente è quello che il cervello fa, del pari la realtà – il mondo esterno, l’universo, il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi, gli infiniti e innumerevoli mondi di Bruno, la materia vivente e inorganica, la Natura in tutta la sua maestosa vastità – è precisamente ciò che emerge dai processi cognitivi innescati e attivati da quella macchina biologica che noi siamo.

Non solo l’uomo è quello che pensa (anche quando assume date condotte e prende delle decisioni tangibili), ma il suo pensiero è l’unica cosa che c’è (Maturana, Edelman, Tononi, Shakespeare, Machado, e in definitiva tutti quanti). Nondimeno, come si è visto in precedenza, è anche possibile andar oltre questa prima constatazione e statuire che l’intero macrocosmo e la sconfinata sfera della conoscenza umana, e noi che ne siamo la personificazione vivente che la secerne, non è altro che l’incarnazione dello stesso Universo, la soggettivazione intelligente e senziente dell’intero cosmo. Da questo punto di vista, la natura diventa un organismo mediante noi e quindi si umanizza. Nostro tramite comprende se stessa e noi ne siamo lo specchio cognitivo, l’intelletto cosciente che mentre ne descrive le grandi leggi parla al proprio alter ego e gli permette di capirsi. D’altro canto, tramite la materia vivente di cui consta l’uomo diventa un ente oggettivo e assume lo status di seconda natura, divenendo esso stesso il mondo fisico da cui è nato. È questo stesso universo sotto forma di creatura razionale in grado di ragionare e di costruire nuove galassie e costellazioni di galassie la cui stoffa consta comunque di pensiero.

Quando si dice dunque che la mente crea la propria realtà, bisogna intendere questo enunciato nel suo duplice sofisticato significato, altrimenti si cade nei più insolubili rompicapo e in stereotipi banali, muti e fuorvianti insieme dal punto di vista della spiegazione delle cose. In sintesi, la nostra mente è l’universo e l’universo è la nostra mente. Le due cose in una. Metafora sublime del passaggio dell’identità dei due domini nella loro unità, e viceversa. Ognuno contiene al proprio interno il proprio opposto. Ciascuno è se stesso e allo stesso tempo il suo contrario. Se dico identità e pari natura, dico distinzione. Se dico differenziazione, dico perfetta uguaglianza. Entrambe le cose al contempo e d’un colpo solo.

Queste considerazioni finali, per quanto provvisorie, ci mettono ora in grado di tener conto delle sue tre altre impressioni da lei esplicitate, Dell’Ombra, nella sua prima domanda. Erano già legittime e pertinenti all’inizio, ma ora forse le possiamo osservare sotto una luce diversa. Per comodità le distinguo in questa tripletta:

 

A)  alla lettura di testi come Le relazioni virtuose, Il pensiero ermafrodita della scienza e Colonialismo cognitivo, <<il primo aspetto riguarda la sensazione di entrare in un circolo epistemico dal quale riesce difficile uscire>>;

B)   inoltre, se le analisi dei suddetti volumi sono vere o descrivono stati di cose reali, <<ogni conoscenza scientifica e financo filosofica, nessuna esclusa, essendo “preformata dal capitale”, risulta necessariamente falsa e inattendibile>>;

C)  infine, se si tiene conto di tutto ciò <<appare arduo ogni tentativo di risalire la corrente e, uscendo dal circolo vizioso, tuffarsi nella “realtà”>>.

 

In merito alla prima questione, quello che dal mio punto di vista posso dire, tenendo conto anche in questo caso della documentazione disponibile, è che non esiste alcun fuori. Sin dalla nostra nascita, siamo dentro il mondo della mente e vi restiamo fino alla nostra dipartita. Anche scavalcando mille steccati (fatti apposta, del resto, soltanto per essere saltati, nota von Hardenberg), che inevitabilmente delimiteranno solo confini interni. Le metafore “entrare dentro” e “uscire fuori” hanno senso a mio avviso solo nell’ambito del realismo fisico e del materialismo ontologico classici. È qui che un mondo esterno indipendente traccia dei limiti rispetto al soggetto. Nondimeno, se questa rappresentazione non ha alcun riscontro né prove a favore, possiamo ben credere che sia falsa. Questa constatazione, tra l’altro, è convalidata ora anche dalla comprensione delle dirimenti ragioni (per loro!) che hanno spinto quelle scuole a postularne l’esistenza.

Al colmo del paradosso, poi, è la stessa argomentazione della scienza che confuta quel presupposto. Vi insisto, a dispetto di quanto già documentato, giusto per dissipare ogni dubbio in merito. Vorrei provare a farlo usando una fitta ed incalzante serie di enunciati di Gregory Bateson  (a suo tempo uno dei pensatori più illustri del mondo accademico occidentale ed esponente di punta dell’allora emergente “cultura della complessità” in seno alla comunità scientifica). I seguenti in particolare:

 

►<<l’epistemologia è una metascienza indivisibile e integrata il cui oggetto è il mondo del pensiero: la scienza della mente nel senso più ampio del termine>>,

►<<Viviamo, com’è inevitabile per tutti gli esseri umani, in una rete estremamente complessa di presupposti che si sostengono a vicenda>>.

►<<L’individuo pensante [vive] in un universo astratto e, a mio parere, tautologico>>.

►<<Il mondo in parte diviene – viene ad essere – come è immaginato>>.

►Ergo: <<Le idee sono ciò che noi possiamo conoscere, e al di fuori di esse non possiamo conoscere nulla>>.

►Per questa ragione: <<Gli oggetti sono mie creazioni e l’esperienza che ho di essi è soggettiva, non oggettiva.

La nostra civiltà è profondamente basata sulla illusione che i dati sensoriali o le immagini visive [siano caratteristiche] del mondo esterno>>.

►Oltretutto: <<La mente è vuota; essa è niente, un non ente. Esiste solo nelle sue idee, che sono anchesse non-enti. Solo le idee sono immanenti, incarnate nei loro esempi, e gli esempi a loro volta sono non-enti>>.

         È letteralmente impossibile non prendere sul serio l’interpretazione di Bateson, visto che essa è una epitome della scienza contemporanea. Ricalca, in altri termini, le opinioni della fisica. Infatti una teoria scientifica, oltre ad essere <<un modello dell’universo>>, come ci fa sapere Stephen Hawking, <<esiste sono nella nostra mente e non ha alcunaltra realtà>>. Si noti bene: <<qualsiasi cosa questa affermazione possa significare>>.

Se inoltre prendiamo atto, anche con Wittgenstein, del fatto che le tautologie sono la logica del mondo, questa semplice constatazione, insieme alle altre due, riduce in cenere tutti e tre i principi fondamentali del pensiero razionale delle società occidentali: il principio d’identità, il principio del terzo escluso e infine – vale a dire, sopra a tutto – il principio di non contraddizione. Questi tre capisaldi del retto ragionare, infatti, presuppongono la loro essenziale distinzione di specie dai circoli viziosi dell’argomentazione incoerente e presumono di rappresentarne l’antitesi. La cultura occidentale, sulla scia di Aristotele, li ha sempre definiti addirittura <<le leggi del pensiero>> a cui ogni dimostrazione doveva conformarsi, pena il suo nonsenso e la sua irricevibilità. La spiegazione attraverso quei tre criteri, insomma, postula l’esistenza delle tautologie come impasse e anticamera, da evitare come la peste, della banalità semantica. Ma se tutto è tautologia, status e funzioni di quei tre principi vengono meno e spariscono nel nulla. È la fine dell’intero e celebrato logos dell’Occidente, lo sprofondare in un abisso senza fine e il dissolversi in questa caduta nel vuoto della sua tanto decantata natura geometrica! Per questa ragione concetti dirompenti come quelli in causa dovevano essere maneggiati con cura e incorporati nella logica versatile (Love), così come si miscela la nitroglicerina con sostanze stabilizzanti per evitare ogni detonazione indesiderata. La Love è la sabbia di diatomee del pensiero onirico!

Ovviamente, lo spinto platonismo scientifico di Bateson, come ormai ci è noto, è il solvente intellettuale che avrebbe voluto cancellare per sempre le origini del pensiero scientifico dalla società del capitale. Nondimeno, a modo suo, come tante altre tendenze invero della scienza, rappresenta anche una confutazione radicale degli stereotipi odierni. A modo loro, anche gli argomenti del biologo statunitense sono un’altra esemplare incarnazione di quei <<tenui ed eterni interstizi di assurdo>> borgesiani che ci rivelano la falsa natura in questo caso della sua architettura e della logica che l’ha disegnata. Proprio per questo Bateson ci permette di passare alla seconda questione, credo, con una migliore cognizione di causa.

Lungi dal confinarci in un angolo, la scoperta del fatto che tutto, nell’orizzonte contemporaneo, <<risulta essere falso e inattendibile>> rappresenta invece la chiave di volta di una differente interpretazione del mondo. Invece di chiuderci in faccia tutte le porte, al contrario ci obbliga a spalancarne di nuove e quindi a percorrere altre vie del pensiero, mai calcate in precedenza. Per forza di cose, se abbiamo appreso che tutte le precedenti c’infilavano in tunnel senza fine e senza alcuna via d’uscita. Nella misura in cui voltiamo le spalle a quel mondo artefatto, volgiamo il nostro sguardo verso il nuovo e l’innovazione originale. E dobbiamo fare così. Necessariamente, per le ragioni suddette.

Oltre a mettere sotto i nostri occhi la natura dell’inganno perpetrato a nostri danni, quella constatazione insomma ci impone anche di sperimentare alternative concettuali diverse, ci obbliga a far nascere, come aveva intuito Musil, nuovi fiori del pensiero, per definizione distinti da tutti i cliché precedenti. Da questo punto di vista, la nostra apparente impasse promette di essere prima o poi (speriamo quanto prima) il canto del cigno della vecchia cultura. Se si vuole, siamo pressappoco nelle stesse condizioni degli umanisti di Borges, <<i veri intellettuali>> di questo mondo a suo avviso. Se per questi ultimi è la realtà ad essere <<sempre anacronistica>> a raffronto dell’eternità, per noi out o surannée sono piuttosto tutti i barocchi attributi del presente universo del sapere, la fonte prima del nostro pensiero pregresso. Da un altro punto di vista, del resto, si potrebbe anche dire – ancora con Novalis: <<più nomi sono sempre vantaggiosi per una nuova idea>> – che siamo noi a dover essere anacronistici – non convenzionali e dunque potenzialmente estranei – nei confronti di una potente macchina dell’ideologia che vorrebbe plasmarci a sua immagine e somiglianza. Per questo dirimente motivo dobbiamo disfarne gli stereotipi, fare piazza pulita delle loro macerie e provare a far emergere una diversa forma di conoscenza. Per quanto questo sia possibile, ovviamente, per degli individui confrontati con una intera civiltà.

Muniti di questa consapevolezza, e in parte anche di un dato set di nuovi concetti, giusto per ripartire perlomeno da tre e non da zero, come diceva Troisi, si può forse ora guardare in maniera differente alla sua ultima perplessità. Se infatti non esiste nessuna “realtà” fisica in senso tradizionale, vale a dire nel significato altamente doppio e ambiguo dell’oggetto coniato dalla scienza, possiamo allora fare economia di ogni presunta immersione nelle sue acque. Non c’è nessuna acqua che aspetti il suo tuffista. Avrebbe senso tuffarsi in una piscina vuota? Se la metafora in causa ha un suo certo charme per il realismo ordinario del senso comune (ed è questa forse la sua forza), non dovrebbe più averne per chi ne ha scoperto l’inganno. In tali questioni, conviene sempre tenere bene a mente Novalis: <<il realista è quell’idealista che non sa nulla di se stesso>>.

D’altro canto, a maggior ragione il divieto in causa vale anche per la cosiddetta “realtà” sociale, per la storia fatta emergere dagli individui attraverso i loro disegni e i loro contegni. In primo luogo, in questo dominio d’esistenza tutto è stato intimamente preformato dalle sofisticate mediazioni del capitale e il suolo che calchiamo vivendo al suo interno non può certamente essere considerato un presupposto, magari materiale, dei nostri passi. Questo, stante la sua natura derivata, è impossibile. In secondo luogo, poi, in questa sfera di realtà indotta e di secondo livello rispetto alla sua fonte, i soggetti dominanti, servendosi di una quantità di grandi mezzi, fanno nascere ulteriori mondi fittizi nei quali far vivere tendenzialmente per sempre le moltitudini sociali. Le agenzie di intelligence, in questo contesto, hanno sempre svolto una funzione cruciale nell’assicurare la stabilità dell’ordine costituito e dunque la struttura del sistema, come ci hanno spiegato i loro storici (si vedano solo a titolo d’esempio Servizi segreti in Roma antica e l’ampio studio in più volumi di Pietro De Francisci, Arcana imperii). Affiancati oggi dai MeMe sono divenuti pressoché una potenza.

Probabilmente, una vera “riforma dell’intelletto” in senso anacronistico, sarà obbligata a passare anche attraverso l’archiviazione definitiva nel museo del nostro passato remoto anche di tutte le allegorie, linguistiche e intellettuali, con le quali il nostro pensiero è stato modellato a suo tempo e per così lungo tempo dal capitale. Anche per questo è importante forgiarsi un nuovo lessico della mente che sia in grado tanto di additare gli inganni insiti nella vecchia cultura, quanto di distinguersi dai suoi stereotipi, quanto infine di sviluppare differenti interpretazioni del nostro universo di vita. Prima lo facciamo, meglio è.

 

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