Ecco la prima edizione integrale degli «Aforsimi italiani del Barchi» di Emanuele Montagna, di cui avevamo pubblicato alcuni estratti.
Dalla Premessa:
Nella società dove il capitale è il principio determinante in divenire – vieppiù sinistro – per tutto il vivente, non esiste (e forse non è mai esistita nemmeno prima, sotto l’impero di altri principi), una “via maestra” – “logica”, “razionale”, di “buon senso” e almeno un po’ rassicurante – per tentare di costruire l’immaginazione di una società differente. Nel concreto, qui ci si trova senz’altro dentro un mare aperto e senza riva, indefinitamente periglioso, infiltrato da migliaia di agenzie dedite al brutto e al nefando. E accade spesso che, appena si pensa di aver “compreso qualcosa“ delle sue correnti profonde, occorre disporsi invece di nuovo a non capire, a ridubitare d’ogni idea e relazione in un’atmosfera comunicativa ben più che ostile e, in ogni caso, matrice velenosissima della nostra presente catastrofe. Già sappiamo, del resto, che se talvolta ci si fa trovare impreparati a queste “altezze nell’oscurità”, l’inganno più sottile malignamente si reinfiltra nella nostra mente e in modo inedito ancora ci confonde secondo i suoi temibili principi di logica versatile. Così è nel “concreto” e “quotidiano” di tutti ad ogni latitudine, anche se non ci pare e non ci piace riconoscerlo.[…]
A mio avviso, in queste condizioni planetarie inedite ed invero già estreme per la vita, non possono essere l’usuale scrittura “narrativa” e la classica forma-saggio – anch’esse peraltro convenzioni fissate tramite mille legacci astuti al pensiero dominante – le sole lucerne a portata di mano da accendere per guidarci sulla via dell’immaginazione; ovvero le “chiavi” e, se si vuole, le “riserve di lampi” non ancora ben esplorate che possono aiutarci nel tentativo di scorgere altri orizzonti.
Anzi: se la scrittura senz’altro aggettivo vuole ancora pretendere per sé un senso – tornare ad essere tale, ovvero fonte di verità e di speranza per il vivente tout court – essa non ha altra scelta che quella di imboccare la via di una immaginazione di specie differente: fuori e irrevocabilmente, da subito e per sempre, da tutto il culturame post-spettacolo che ci pervade e che ci spacciano imperterriti come l’approdo dell’unica civiltà possibile e il culmine storico dell’umanità “senza alcuna alternativa”.
La sola immaginazione che per me conta come tale è quella di una scrittura (o di un pensiero, un’arte, una “teoria” ecc.) che in primis dica la verità a questi “livelli” e perciò stesso mandi lampi estranei nella tenebra intuendo e/o preparando il cammino della fuoriuscita già da ora, in mezzo alla catastrofe che dura. Se e quando riesce a fare questo, la scrittura si costruisce come forma di pensiero che non diviene mai dogma o sistema ideologico in qualche modo infeudato al principio determinante. Soltanto questa differenza specifica la distingue, come opera propria dello scrittore, da tutto il resto delle scritture esistenti generate da giornalisti, politici, filosofi, uomini di scienza e simili. In mancanza dell’opera degli scrittori, vige appunto tutta questa abietta scrittura purchessia, quella che attualmente viene pompata e fatta girare per il mondo dal “mercato“, quella che non ha proprio alcuna ragione di esistere per l’immaginazione di società di cui parlo, essendo e restando per definizione una sorta di granello di sterco indurito sotto la cappa oscurante eretta dalla cultura d’Occidente giusto a colpi di scienza-teologia-democrazia.
Stante questo contesto, gli aforismi e i testi diversi che seguono, primi estratti da un’opera in via di lieve facimento respiratorio, raccontano in modo erratico, un po’ per stralunata tempesta di lampi e qua e là per fragore di riso, le miserie distintive, gli inganni e la catastrofe attuale – insieme circolare e irredimibile – di questa cultura fattasi mondo. L’obiettivo è tuttavia sempre lo stesso, qui come negli altri contributi del Centro studi Juan de Mairena: cercare un diverso modo immaginativo e relazionale per fare mondo, il che vuol dire porsi nella condizione societaria più concreta per uscire fuori da questa catastrofe che ha per sua natura – a differenza di quelle vissute nel passato, prima del capitale quale principio determinante – il potere storicamente inedito di travolgerci a mo’ di novella estinzione di massa coinvolgente per certo l’intera specie umana insieme ad un numero difficilmente precisabile ma comunque grande di altre specie viventi.
Questo è allora – per me scrittore come, immagino, per gli amanti del vivente – il compito più concreto: prepararsi dentro alla revoca dell’infiltrazione cognitiva dominante; immaginare mondi difformi solo in apparenza lontani, insensati e “non in funzione” sempre; sopportare dignitosamente la congiura del silenzio riguardo la propria opera, scansare gli strali e demolire le accuse di insania da parte dell’establishment; costruire intanto relazioni differenti e anticorpi di senso fuori dal denaro, da questa scienza, da questa tecnologia e dalla sedicente democrazia; e fuori anche da ogni corsa contro il tempo (cioè contro la vita di tutti), così come fuori da ogni competizione; mettendo semmai alla prova queste relazioni e questi anticorpi, una volta che saranno ben formati, lungo un’opera paziente di disarticolazione interna delle narrazioni dominanti, da svolgere ovunque risulti possibile mentre si rimane ancora per forza di cose sotto l’impero della catastrofe…
Ma è ancora umanamente proponibile questo compito? L’interrogativo, per chi si pensa scrittore nel senso sopra richiamato, non sarebbe nemmeno da avanzare. Certo che il compito è proponibile (e, umanamente parlando, più che mai vitale): nominarlo a chiare lettere vuol dire essere già sulla soglia dell’impegno “operativo”, di quel cammino che, con Juan de Mairena, si fa soltanto strada facendo mediante questi nostri primi, decisivi passi immaginativi. Questo compito, per quanto e appunto perché fuori dal tempo, forma esattamente il modo attuale della nostra sopravvivenza ardua, dell’unica nostra vita possibile in questa società. Che il suddetto interrogativo se lo pongano invece in modo retorico – sottintendendo ovviamente una risposta negativa – gli attuali scienziati, i filosofi, gli accademici in genere, un politico residuato o qualche giornalista sopravvissuto, fa parte del gioco della catastrofe che tutti costoro impersonano e/o intendono far durare. Non saranno mai abbastanza vituperati per questo, vista la gravità mortifera di quello che fanno… Occorre tuttavia ricordarsi di non dilapidare in quest’opera pur giusta e necessaria le ancora scarse energie immaginative in formazione.
Con questa serie di avvertenze preliminari e con l’aggiunta di qualche altra chiave di lettura critica ricavabile dal contributo di Franco Soldani all’avvio del Centro studi, mi auguro che i presenti Aforismi italiani del Barchi, per quanto di “forma” diversa e “mossi” dentro con argomenti assai eterogenei fra loro, non riescano affatto “ermetici”, bensì possano essere di stimolo alla riflessione immaginativa differente di quanti non vogliono più ingerire senza reagire i semi mortiferi dell’esistente.
Viviamo allora diversamente la catastrofe e ce ne andiamo ridenti a spargere semi estranei nel deserto fatto putrido silicio. Il domani, se ci sarà, non potrà che essere l’opera immaginativa e costruttiva di un modo differente di stare al mondo: con “valori” oggi estranei, non competitivi e non mercantili; di ribellione al brutto e con un senso del bello capace di disegnare un reticolo societario vivente nella cura di tutti; vera e propria culla di una conoscenza “scientifica” non stupidamente manipolatrice ed antropocentrica, bensì saldamente ancorata a idee di rispetto, d’equilibrio e d’armonia entro il vivente.