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Lettera aperta ai compagni di viaggio

01Anche un viaggio lungo mille miglia,
comincia sempre con un primo passo.
Fa che sia quello giusto e che calchi la strada propizia.
Lao Tzu
(testo apocrifo)

Bologna 2015
Franco Soldani
Premessa

Lo scritto che segue è il testo di una mia lettera a Sergio Federici dell’ARS distinta in due parti diverse ma dal contenuto complementare. In tale lettera si commentava un articolo di Paccosi, Miseria del complottismo, comparso su Appello al popolo, l’organo ufficiale dell’ARS, il 29 ottobre scorso, e se ne mettevano in luce gli argomenti. La lettera era completata da una breve Nota che prendeva in esame le origini della Costituzione italiana e il suo attuale stato.
Qui di seguito si riproducono entrambi gli scritti, allo scopo di aprire una discussione su alcune questioni cruciali del presente e portare all’attenzione di tutti gli inganni e le molte trappole insite nel rapido sviluppo degli avvenimenti. Apre il tutto la lettera con cui spiegavo a Federici il modo in cui era stato composto il materiale che gli facevo avere. Siccome a me sembra che in merito alle questioni internazionali – Isis, guerra, potenza Usa, ruolo dell’Italia, ecc. – su Appello al popolo a tutt’oggi la confusione regni ancora sovrana, ho pensato fosse utile gettare un sasso nello stagno (a proposito di tale confusione si veda il dibattito seguito ad un intervento di Stefano D’Andrea, L’Italia deve combattere l’IS?, su Appello al popolo del 18 novembre scorso: un classico esempio di depistaggio cognitivo e di disinformazione sin dal titolo dell’articolo).
Il linguaggio geopolitico e finanziario dell’impero, spiegava anni fa Rodrigue Tremblay, è quello dell’impostura. E Tremblay questo idioma lo conosce bene visto che a suo tempo ha fatto parte del team di economisti di lingua anglosassone che hanno smascherato gli intrighi internazionali dello MFI e della Banca Mondiale, due pilastri portanti dell’imperialismo Usa. Ci vogliono nuove chiavi di lettura non ricalcate sugli stereotipi correnti – interessati cliché forniti dagli stessi odierni dominanti del resto – per sperare di poter prima o poi fuoriuscire dal labirinto in cui ci hanno infilato.
Senza tali nuove chiavi di lettura, siamo solo topi in trappola che dalle sbarre della loro gabbia guardano il mondo e credono di essere fuori dei suoi confini e dei suoi steccati, e pensano persino di poterlo capire nutrendosi degli ingredienti che i custodi di questo novello Panopticon senza muri né sorveglianza visibili hanno loro somministrato. Vogliamo farci trattare come questi simpatici roditori ancora a lungo?

Forlì, 25 novembre 2015 F. Soldani

Forlì, 2.11.2015

Caro Sergio,

tra i materiali che ti faccio avere, la prima lettera su Paccosi l’ho scritta senza prima aver letto il suo testo. L’ho fatto di getto sulla base delle mie prime impressioni e conoscendo in anticipo l’oggetto del contendere.
La seconda invece, il Post scriptum, l’ho scritta dopo aver letto il suo articolo riportato su Appello al popolo. Questo per spiegarti perché il mio scritto ha la forma che ha.
Infine vi ho aggiunto una parte finale che ha solo posto sul tappeto alcuni problemi di cui forse converrebbe tener conto.
Il tutto inteso come un contributo alla discussione che di sicuro proseguirà in futuro, visto anche il calendario degli appuntamenti programmati nelle settimane successive e che immagino tu abbia ricevuto. Se invece no, Emanuele presto lo farà avere a tutti quanti.
Un caro saluto
Franco Soldani

Forlì, 31 ottobre 2015

Caro Sergio,
volevo farti avere queste mie riflessioni sull’articolo di Paccosi che rappresenta a mio avviso un caso esemplare di quella infiltrazione cognitiva di cui ha a lungo parlato Emanuele sabato scorso a Bologna. Il fatto che sia comparso sulla rivista dell’ARS ne rende ancora più urgente l’analisi. Diciamo che è un mio contributo ai temi che sono venuti in discussione, tra i molti altri, nella giornata di oggi.
Concedo senz’altro la buona fede a Paccosi. Non lo conosco personalmente e quindi non esprimo giudizi sulla persona. Quello che mi interessa sono le idee e la forma mentis che traspaiono da quello che ha scritto.
In questo caso, coi suoi argomenti Paccosi rappresenta un portatore sano del virus inoculato dai perpetratori dell’11 settembre nella mente degli ignari individui (dei cittadini americani in primis e poi di tutta l’opinione pubblica mondiale) e dei comuni mortali (noi compresi ovviamente, all’epoca). Il paziente o la vittima dei loro disegni, bada bene, non è consapevole di aver contratto il virus. Pensa anzi di ragionare in modo corretto e quindi rappresenta un vettore ideale della spiegazione delle cose fornita dai perpetratori, in quanto è escluso che possa mai divenire cosciente dell’inganno consumato ai suoi danni. Poiché, con gli argomenti dei perpetratori, crede di stare ragionando in modo appropriato, neanche gli sfiorerà la mente di essere stato ingannato. Non sa di far ciò, ma lo fa. E per questo vive in un mondo alla rovescia. In pratica ragiona e pensa come i perpetratori vogliono che ragioni e pensi. Nessuno gli impone nulla e il suo assoggettamento agli interessi dei perpetratori avviene spontaneamente e in modo naturale, con in più la convinzione di avere ragione (una sorta di endorfina intellettuale, quest’ultima, che rinforza il primo effetto).
La natura subdola e perfida di questo meccanismo, incorporata in quella sottile mediazione, ci dà tutta la misura di questo tipo di preformattazione cognitiva. Qui si fa a meno di agenti infiltrati. Non ce n’è proprio bisogno. Una volta che si è subito il trattamento terapeutico in questione, e questo vale per qualunque analisi della società: finanziaria, economica, politica, ecc., una volta cioè che si sono introiettate le spiegazioni dei perpetratori e le si è rese vere, diventa poi molto difficile uscirne, giacché il soggetto a sua insaputa (e qui sta il carattere diabolico della mediazione in causa) si trova incastrato in una logica che a suo tempo, e a ragione vista la sua natura, Paul Watzlawick definì selfsealing (autosuggellante), confermata persino dalle sue smentite e quindi patologica.
Non so naturalmente se Paccosi ragioni così. È pero sicuramente vero che ha sposato le tesi dei perpetratori, le ha trasformate in spiegazioni autentiche del reale come questi ultimi volevano che fosse; ciò facendo ha ignorato, come richiesto da tale procedura, qualunque altra interpretazione dei fatti e financo naturalmente qualsiasi analisi dei fenomeni e dei dati di fatto disponibili. Ha insomma ignorato le prove fattuali a disposizione, credendo per di più con questo di poter spiegare la realtà.
Oltretutto, lo ha fatto usando lo stesso linguaggio, deterrente e denigratorio, dei perpetratori e dunque anche per questa via incorporando persino nel proprio codice linguistico la loro logica à l’envers. Il che mi ha ricordato il fatto che la stessa stampa italiana, giusto per esporre Sergio Flamigni al discredito, coniò il termine “dietrologo”, prima inesistente nel lessico italiano, per bollare la sua documentata ricostruzione dei fatti e degli avvenimenti come delirante (e bada che degni di ricovero in una casa di cura sono stati definiti da Barnard, che ha fatto copia e incolla dalle sue fonti americane ufficiali, come documentato ne Il porto delle nebbie, tutti i critici italiani e no della interpretazione dell’amministrazione Bush, ignorando bellamente, par dessus le marché, la storia criminale pregressa di questa dinastia americana).
Tra l’altro, facendo ciò tanto ha reso valida unicamente la spiegazione ufficiale degli avvenimenti e ha così messo sugli altari i perpetratori, quanto ha rovesciato la realtà delle cose, di nuovo come volevano questi ultimi, trasformando i critici dell’interpretazione ufficiale, essa stessa del resto basata su una cospirazione, in manipolatori se non peggio della realtà e soggetti senza alcuna preparazione scientifica (nel mentre proprio la fisica dimostra l’impossibilità materiale della spiegazione ufficiale: si veda in merito il libro della statunitense Judy Wood, Where did the Towers go? Tra le altre cose proprio Faremondo ha ospitato la Wood in una affollata conferenza qui a Bologna nell’ottobre 2011 per discutere della natura dell’11 settembre 2001 e della sua analisi degli avvenimenti, una documentata lettura del reale da parte di un fisico d’eccezione che rappresenta un modello per chiunque voglia capire che cosa sia veramente successo quel giorno).
Questi brevi ma significativi esempi ci dimostrano ancora una volta quanto sia potente le preformazione cognitiva, quanto potenti siano i mezzi usati dai dominanti per educare i soggetti a pensare come loro vogliono che ragionino. Siamo ben oltre il grande fratello. Ovviamente il monopolio dell’informazione di cui dispongono ha solo inasprito le cose.
Ti faccio allora avere un libro che ho scritto nell’ormai lontano 2008 a proposito dell’11 settembre, la madre di tutte le mistificazioni successive e la fonte delle cose sopra descritte. L’ho scritto io ma in realtà sono stato solo uno scriba delle ricerche compiute da uno stuolo di statunitensi, disinteressati e senza conflitti d’interessi, che hanno messo in dubbio la spiegazione ufficiale del governo e ne hanno documentato la falsità in libri, saggi, video, interviste, ecc. Con una parte di questa comunità di studiosi e insieme a Emanuele e Roberto Di Marco, ahimè scomparso, e i giovani del Locomotiv abbiamo organizzato, proprio a Bologna nel settembre 2006, la prima conferenza internazionale sull’11 settembre (pagandocela tra l’altro di tasca nostra, senza sponsor di alcun tipo).
Come Faremondo siamo ritornati sull’argomento più volte, l’ultima con un mio articolo dell’ottobre 2011: Orwell reloaded. Il mondo criminale del capitale e dei Megamedia odierni contro ComeDonchisciotte, gli epigoni più recenti di Barnard e tutti i figuri che ruotano intorno all’ex Potop (e agente del Viminale) Franco Piperno, e infine nel gennaio 2015: Le strategie dell’inganno e le sue metamorfosi. La logica dell’inside job dietro il caso Charlie Hebdo.
Ti aggiungo anche il volume sul caso Moro che abbiamo pubblicato, che tu conosci bene mi sembra di ricordare, e che dà conto della stessa logica applicata alla ignara opinione pubblica italiana di allora e anche al Pci che avrebbe dovuto invece essere sull’avviso ma che è invece caduto appieno nella trappola di credere senz’altro al mondo alla rovescia dei perpetratori. Da lì, tra l’altro, ha avuto inizio il suo declino, decretando così persino senza saperlo il trionfo dei suoi affossatori (senza sapere del resto perché moriva, come il povero Ivan Il’ic), che tra l’altro non finiscono mai di affossarlo visto che continuano a celebrarne ancora oggi i dirigenti, come Berlinguer ad esempio ma non solo, che lo hanno portato alla tomba!
Un caro saluto da parte mia e alla prossima.
Franco

Post scriptum
Nella sua argomentazione Paccosi non fa alcuna distinzione (e distinguere è conoscere, diceva von Foerster) tra le diverse interpretazioni dell’11 settembre come un inside job perpetrato dall’amministrazione Bush e in ultima analisi dal CF statunitense e il resto delle varie teorie del complotto. Dimentica persino Michael Parenti, uno statunitense che vive negli Stati Uniti (e per capire questi ultimi bisogna viverci o viverli perlomeno un po’): i complotti sono una costante della storia americana, non un’eccezione. Nello stesso tempo, violando qualunque principio di logica e in primis la non-contraddizione, sposa come vera l’interpretazione ufficiale, che è una spiegazione basata su una congiura da parte di un dato team di soggetti.
Inoltre, Paccosi costruisce il suo dire con materiale preso a prestito a sua volta da fonti americane che non hanno mai messo in dubbio la spiegazione ufficiale del governo (e qui qualche conflitto d’interessi avrebbe dovuto sollevare delle perplessità, ma tant’è…) e ne hanno anzi condiviso a priori o a prescindere le tesi: ad es. Noam Chomsky, Cockburn, il colonnello Farrell della intelligence militare Usa, e poi qui da noi di Roberto Ciccarelli, di Barnard, di Marco Revelli, di Franco Piperno, e di una folla di consimili soggetti, tutti accomunati da una comune fede: condividere la spiegazione ufficiale e farla propria. Non solo.
Tutti questi personaggi, nessuno escluso, sia ignorano sistematicamente qualsiasi analisi delle prove fattuali e dei dati disponibili (polverificazione delle torri, loro disintegrazione simmetrica, loro velocità di caduta, struttura ingegneristica degli edifici, ecc.), sia non prendono quasi mai in considerazione le dimostrazioni alternative, se non per denigrarle, mai per discuterne gli argomenti e sottoporli a disamina approfondita.
Oltretutto, per poterlo fare prendono le mosse da un’iniziale e del tutto gratuita equiparazione di tutte le teorie del complotto esistenti in rete (escluso naturalmente quella del governo Bush), ne fanno un unico fascio e poi le trattano come se fossero la stessa cosa, premessa indispensabile quest’ultima per poterne ignorare le differenze. In particolare quella macroscopica tra le spiegazioni alternative dell’11 settembre e la interpretazione governativa ufficiale (e già consegnarsi mani e piedi legati a quest’ultima, conoscendo la storia americana, è un paradosso logico e politico di prima grandezza). E questo approccio, si badi bene, proviene dagli Usa e si è sviluppato sulla scia, di nuovo, di uno script americano originario.
Inoltre, una simile impostazione ha letteralmente cancellato dalla scena il fatto che molto spesso, se non sempre, una parte delle teorie del complotto così come le loro presunte confutazioni specchio sono state messe in circolazione esattamente dai perpetratori allo scopo di creare comodi straw men contro cui scagliare gli strali delle agenzie da loro finanziate (i vari siti contro le “bufale”: celebre quello di Altissimo, il Cicap di Angela, ecc., e solo il cielo sa quanti ce ne sono! In America sono migliaia a dir poco) in modo da screditare e mettere fuori gioco preventivamente, utilizzando la preliminare pappa indistinta di cui si è detto sopra, tutte le spiegazioni alternative degli eventi, comprese quelle supportate da prove materiali (che come dice Flamigni a proposito del caso Moro «non temono smentita»). Ovviamente, bisogna prima documentarsi in merito e conoscerle, cosa tra l’altro resa impossibile dal magma iniziale che ha fatto di tutt’erba un fascio (e anche questo è un suo ulteriore sottoprodotto, atto a funzionare come deterrente contro qualsiasi eventuale soggetto interessato ad approfondire le questioni e a studiarle).
Muniti di questo arsenale preventivo i detrattori possono ora fare ancora dell’altro. Intanto, sposano l’aggressivo e semiteologico linguaggio dei perpetratori, definendo i critici della spiegazione ufficiale, tanto per citare Barnard, persone che si sono bevute il cervello, spostati, febbricitanti, individui che dovrebbero essere rinchiusi in una clinica militare (questo è Farrell: alla lettera) per adeguati trattamenti clinici et similia, tutte locuzioni edificanti prese a prestito, copiate e incollate, dai Megamedia americani (quelli definiti prostitute dal Wilson già a fine Ottocento e nelle mani della CIA, ipse dixit Colby che ne fu direttore, da sempre).
In secondo luogo, mettono letteralmente sottosopra il mondo e addebitano alle spiegazioni alternative, con un tipico transfert freudiano (che è però anche un atto liberatorio delle proprie pulsioni negative), senza timore alcuno dei paradossi e dei vincoli della logica (e persino Dio è soggetto a quest’ultima! Loro no), le loro stesse sindromi e omissioni:

-i critici non studiano i fatti,
-non hanno un approccio scientifico all’analisi della realtà (ma per poterlo avere si dovrebbe prima sapere che cosa è la scienza, quella degli scienziati reali non degli stereotipi accademici o del tritume di Popper, il più grossolano venditore di fumo e pill peddler dell’Occidente!),
-vivono in una «mera fascinazione emotiva» (testuale Paccosi),
-sono «al servizio del potere costituito» oppure in gentile alternanza sono «espressioni dell’ideologia dominante» ovvero anche «sono funzionali alla riproduzione dell’ideologia dominante» (ibid come prima ed ennesimo doppio transfert, triplo se si considera duplice l’ultimo enunciato),
-la loro «connivenza con l’ideologia dominante», anzi, «ne palesa la natura oscurantista e reazionaria»,
-raccontano «barzellette»,
-«non cercano la verità»,
-non sanno cosa sia «il vaglio del dubbio»,
– escludono anzi «cognitivamente tutto ciò che possa incrinare quella certezza che l’individuo ha deciso aprioristicamente di assumere»
(loro invece sposano la spiegazione ufficiale, nella fattispecie la spiegazione del governo Bush dell’epoca, che è anch’essa, poiché è una interpretazione complottista, un postulato gratuito),
-propagano anche «una visione fatalistica e desistente» della vita,
-sono funzionali «al mantenimento dello status quo»,
– secernono una «semplificazione della complessità»,
-lo fanno per un «bisogno di sicurezze e verità preconfezionate», perché in fin dei conti, si sa, «sono infantili»,
-rispondono solo «al bisogno umano di aggrapparsi a delle sicurezze dinanzi al caos e al disorientamento del tempo presente» (sono proprio dei bambini!),
-nonostante il fanciullino che alberga nel loro animo (o forse a causa sua, non è chiaro), distillano anche «idiozia» e «aspetti deteriori»,
-fanno «retrocedere addirittura il pensiero umano di oltre due secoli» (ma fanno tutto loro? Devono avere un potere enorme, e magari nemmeno lo sanno),
– alla fine però si deve ammettere che il complottismo, oltre ad essere tutte le cose sopra censite, e a dispetto di quanto precede è anche «un approccio critico all’esistente»
(che questo ultimo enunciato ci faccia precipitare nel surreale non sembra preoccupare Paccosi più di tanto: se sono tutto quello che è stato detto prima, come fanno ora ad essere il suo contrario?).

Ora, data l’iniziale equiparazione di tutte le spiegazioni alternative dei fatti dell’11 settembre a indistinte teorie del complotto, tutte queste caratteristiche sono naturalmente addebitabili anche ai critici della versione ufficiale, che così vengono messi nello stesso calderone (oltretutto senza averne minimamente discusso gli argomenti, circostanza che mi induce a credere che nemmeno li si conosca). Per contro, quest’ultima, se tutte le altre sono quel ludibrio che ci è stato descritto, risulta essere la sola credibile, pur essendo anch’essa una teoria del complotto.
E così in pratica l’esecutivo del tempo sia viene dispensato dall’esibire prove tangibili e forensi della sua spiegazione, quanto viene ritenuto a priori una fonte attendibile di spiegazione. Chiedereste voi un passaggio al vostro sequestratore? Ma non è ancora finita.
Se il principio di non contraddizione ha ancora oggi un qualche significato, e ce l’ha visto che nel mondo tutto deve avere una causa, nella spiegazione delle cose, è allora vietato poter asserire contemporaneamente un enunciato e il suo contrario, giacché se lo si fa si rende nullo e senza senso qualunque discorso. Prescindiamo da tutte le contumelie rivolte alle spiegazioni alternative dell’11 settembre, prescindiamo anche già che ci siamo da tutto il resto (i paradossi, i transfert, ecc.).
Anche se lo facessimo, ed è impossibile farlo, lo stesso tutto il discorso di Paccosi crollerebbe come un castello di carta in ragione di quel prezioso principio, giacché dare per scontata la versione ufficiale dei fatti, mettendo da parte per un momento tutto il resto, significa prendere le mosse da un presupposto ignoto e surreale e pretendere poi di poter secernere da questo suolo sconosciuto (distillato tra l’altro da una fonte altamente sospetta e di sicuro non super partes, di cui dunque è più che lecito dubitare sin dall’inizio per un elementare principio di precauzione) una qualche spiegazione sensata del mondo. Una mission impossible che neanche Dio riuscirebbe a condurre in porto, visto che anch’egli è soggetto ai vincoli della logica. Non solo.
Paccosi rende anche impossibile comprendere appieno la forma mentis dei dominanti, le sottili strategie, sperimentate in secoli e secoli di governo del mondo, messe in moto dall’Occidente per mandare ad effetto i suoi disegni di full spectrum dominance e quindi per un’associazione come l’ARS la sua argomentazione rappresenta il tipico verme nella mela, un classico esempio di infiltrazione cognitiva preventiva a costo zero che non ha bisogno di agenti esterni per colpire il segno. In pratica, ci si mette la serpe in seno, a prescindere tra l’altro dalle reali intenzioni di Paccosi, circostanza che inasprisce soltanto le cose e le rende persino peggiori. Un infiltrato può essere scoperto, una forma mentis è più sofisticata e di difficile tracciabilità.
Ora, le cose raggiungono vette paradossali surreali non appena si fa mente locale al corsivo che precede il suo scritto steso di pugno da un membro della stessa associazione, Gianluigi Leone dell’ARS del Lazio. Il fatto sembra dare in effetti un suo imprimatur ufficiale al dire di Paccosi e quindi spinge a credere che le sue discettazioni siano condivise dell’ARS. Il che, se lo fosse, la metterebbe a rischio, per tutte le ragioni anzidette.
Leone poi aggiunge del suo al mondo surreale precedente, disegnando come Paccosi delle convinzioni che sono incompatibili, almeno a me sembra, con il progetto dell’ARS. Come si può riconquistare la sovranità, contro i dominanti, se incorporiamo la loro logica nel nostro modo di ragionare? Se lo facciamo per di più senza neanche rendercene conto? Se ci si rende subalterni da soli, si potrà mai poi divenire sovrani? Leoni infatti è sicuro di una serie di elementi e in particolare del fatto che:
gli articoli di Paccosi rappresentino «un ottimo inquadramento» del problema,
-le teorie del complotto (e quindi per interposta persona di Bush anche la spiegazione di Paccosi) tendono «a immiserire la discussione politica»,
– dette teorie «cercano spiegazioni semplici e immediate» del reale,
– «immaginano di avere a che fare con forze sovraumane infallibili»,
-«credono nell’immutabilità temporale delle strategie del potere»,
-sono proverbiali infine «la creduloneria [sic] e i vizi posturali [sic] dei complottisti»
(mi sembra che così non gli manchi ormai più niente: evidentemente deambulano anche in maniera asimmetrica, in qualche modo storta insomma).

Davvero non c’è bisogno di fare commenti. In pratica, sia Leone sia Paccosi addebitano agli altri, e in specie alle spiegazioni alternative dell’11 settembre, ciò che le loro stesse analisi sono, anche solo perché ricalcano la versione ufficiale dei fatti (con tutto quello che ne segue e che abbiamo prima visto), mettendo capo di nuovo ad un capovolgimento del mondo.
Mentre l’11 settembre, un crimine perpetrato dall’amministrazione Bush per i grandi disegni geopolitici dell’establishment anglo-americano (subito mandati ad effetto del resto con la susseguente aggressione militare dell’Afganistan, in violazione della sovranità nazionale di questo paese, dei trattati internazionali, della carta dell’Onu e della stessa Costituzione Usa) dovrebbe essere la cartina di tornasole di ogni messa in discussione dell’imperialismo Usa diventa invece a rovescio il presupposto per un attacco a coloro che ne svelano la natura criminale e occasione per difendere i perpetratori sposandone le spiegazioni! Invece di fare dell’11 settembre la leva di un rovesciamento dell’imperialismo americano, la chiave di volta di una campagna politica e mediatica per lo svelamento della verità e la consegna al plotone di esecuzione di tutto l’establishment statunitense per alto tradimento, questo almeno in prospettiva e come battaglia politica del secolo, lo si interpreta alla luce della spiegazione ufficiale e quindi ci si consegna mani e piedi legati, da soli e con piena convinzione, alla logica dei dominanti. Come si vede, siamo persino oltre la sindrome di Stoccolma, giacché non sono prigionieri coloro che lo fanno.
A parte tutto, credere che davvero l’esecutivo statunitense possa mai dirci la verità, e lo si crede volens nolens perché si condivide la versione ufficiale, puzza di bruciato lontano un miglio. Ma si potrebbe mai chiedere moneta sonante ad un falsario? Chi ha detto che il mondo alla rovescia esiste solo nella grande letteratura?
Ma può una forza politica costituente, confrontata con colossi come lo Stato attuale e l’Unione Europea e problemi connessi, nutrirsi di simili prospettive e andare all’assalto del cielo con questi argomenti? Non la condannano invece sin da subito se vengono assunti come base di una sua eventuale azione politico-sociale? Si può sovvertire il problema, la subalternità popolare al potere, con gli stessi mezzi che l’hanno generato? No, non si può. Quindi bisogna cambiare strada e costruire una distinta cultura che non abbia niente a che vedere col pensiero dominante. Non si piange sulla propria storia, diceva Spinoza, si cambia rotta. Oppure vogliamo per l’ennesima volta infrangerci sugli stessi scogli del passato? Spero di no.
Oltretutto questa potrebbe essere l’occasione buona per ripensare tutta la storia del Novecento mettendo in piedi gruppi di studio, centri di ricerca, seminari e quant’altro di utile possa servire, per sfornare poi analisi originali e innovative, mai viste prima, dei fenomeni odierni. Pensa ad esempio al pensiero scientifico reale di cui nessuno sa nulla e di cui tutti conoscono solo gli stereotipi. Ti meraviglieresti, ad esempio, se contrariamente ai luoghi comuni correnti ti dicessi che la scienza ragiona come il capitale funziona? O che tutto quello che pensiamo in merito alla realtà, fisica e sociale, è mediato e quindi preformato dal pensiero scientifico? Nemmeno noi sappiamo di preciso quanta scienza c’è, visibile e invisibile, in quello che crediamo di sapere. Noi comunque ci siamo e i giovani Roberti, Franceschelli, Lago ci sono anch’essi, compresi quelli che abitano fuori Bologna e con cui siamo in contatto.
Ti saluto e alla prossima.
Franco

Piccola nota storico-filosofica e giuridico-politica
Notava Carl Schmitt che i grandi Stati nazionali del XVI-XVII secolo, coi loro grandi eserciti permanenti, la loro amministrazione pubblica, il loro stuolo di funzionari e il conseguente sistema gerarchico di funzioni e soprattutto i loro regimi fiscali erano potuti nascere solo quando l’autorità politica del momento, il potere sovrano, aveva concentrato nella sua persona tutti i poteri preesistenti e aveva creato la pace sociale.
Solo quando il Monarca aveva istituito queste precondizioni essenziali e aveva determinato l’emergere di una società civile ordinata era potuto nascere il diritto e l’ordinamento giuridico era divenuto il cuore formale dello Stato. Alle origini del formalismo legale vi era dunque uno stato di fatto preliminare istituito da un potere di fatto che aveva creato le premesse necessarie e reso possibile istituire l’ordine normativo della società.
Dati questi presupposti, il giureconsulto tedesco poteva affermare tanto che il potere non ha bisogno di diritto per creare diritto, quanto che solo la decisione sovrana, quella che decideva in merito allo stato d’eccezione (all’imprevisto, all’accidentale, all’extra-normativo, alla situazione contingente e all’emergenza, ad eventuali crisi), aveva il potere di creare un ordinamento giuridico ed eventualmente una Costituzione. Persino nella Grundnorm di Kelsen, nella macchina formale che nel suo immaginario avrebbe dovuto dirimere in modo automatico qualunque controversia, l’ultimo fondamento di tutto l’edificio giuridico dello Stato era dato dalla deliberazione di una qualche autorità politica che istituisse la vigenza dell’ordinamento giuridico.
Storicamente, mutatis mutandis, in Italia si è prodotta una situazione simile quando con l’occupazione militare dalla penisola da parte della possente macchina bellica anglo-americana nel 1943-1945 sono state create le precondizioni per il ripristino di uno Stato di diritto, per il ristabilimento di un uniforme ordinamento giuridico in apparenza super partes e sottratto ad ogni arbitrio. Anche in questo caso, sparita ormai da tempo ogni casa regnante e ogni legibus solutus di natura personale, una situazione di fatto e un potere armato preesistente e dominante su tutto il territorio nazionale ha reso possibile la nascita dell’ordine normativo della società dalle ceneri della precedente dittatura.
Prima di ogni Costituzione e alle sue spalle esiste un potere di fatto, non normativo ma fonte del sistema di norme, che ne rende possibile la vigenza e crea le condizioni della sua esistenza. Ergo, l’ordinamento costituzionale emerge dal tale potere e ha questo come suo fondamento. Dietro l’apparente impero formale della legge, sistema giuridico regolato dalla proprie norme tecniche, si stende sempre la lunga ombra della spada e della forza. Non esiste Stato moderno nell’Occidente capitalistico che non abbia sottostante al suo involucro formale, per quanto progressista e moderno questo sia, tale potere di fatto, dato nella fattispecie da un soggetto politico che decide in merito alla situazione concreta e alle congiunture societarie (e può anche decidere di crearle entrambe qualora ve ne sia bisogno).
Ogni costituzione incorpora nella propria esistenza la decisione sovrana e questa sta dentro quella come un pisello nel suo baccello. Il sovvertimento dell’ordinamento giuridico e costituzionale, più o meno pronunciato, più o meno radicale, strisciante o dichiarato, occulto o manifesto, immediato o differito nel tempo e per tappe successive, nasce dall’interno stesso dello Stato di diritto da parte di quelle stesse forze che l’hanno istituito. Non c’è nessun potere esterno né apparati deviati che si facciano carico di tale continua violazione dell’ordinamento costituzionale. Essa nasce da sé, in ragione delle stesse origini di quest’ultimo.
Una dimostrazione da parte dell’esperienza storica di questa correlazione ci è data proprio dalla nascita della repubblica italiana. Prima persino della sua costituzione e col paese ancora in guerra, al momento in cui se ne preparava la nascita nel periodo postbellico e financo nel mentre se ne gettavano le basi con la Costituente il potere di fatto dell’epoca, vale a dire gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sostanzialmente, predisponevano le precondizioni che l’avrebbero da subito svuotata e resa inoperante.
Patti segreti mai ratificati dal Parlamento e di cui quest’ultimo nemmeno conosceva l’esistenza ma firmati dal personale politico dell’epoca in violazione del suo giuramento e della stessa Carta, eserciti segreti comandati da personale militare del nuovo Stato, controllati dagli stessi ministri della repubblica, ma ignoti anch’essi al Parlamento, uffici riservati, sottratti ad ogni controllo pubblico da parte delle istituzioni, gestiti ad arbitrio dei titolari dei dicasteri, finanziamento occulto da parte di organi costituzionali dello Stato di bande militari clandestine (ho ricordato Parri che da presidente del consiglio usava i fondi riservati di cui disponeva per tali scopi), Forze Armate, anch’esse supervisionate dal potere politico e dai suoi funzionari, che avevano giurato fedeltà alla Repubblica e che nel contempo tramavano in segreto contro la Costituzione, servizi di sicurezza e arcana imperii della Repubblica e con funzioni istituzionali di difesa dell’interesse nazionale plasmati a immagine e somiglianza della CIA, di un potere estero che tramite le sue agenzie ne selezionava il personale e lo metteva a capo di uffici e funzioni in cui la catena di comando era diretta dagli Stati Uniti (Stay behind, Gladio, il supersegreto Anello a capo del quale c’era Adalberto Titta un ufficiale della RSI, ma alle dipendenze di Andreotti, il quale a sua volta era un fiduciario dell’agenzia americana sin dal primo dopoguerra tramite padre Felix Morlion di cui era segretario, agente CIA quest’ultimo e responsabile dei servizi segreti del Vaticano, Armata monarchica di liberazione, Rosa dei venti, reti clandestine neofasciste armate e finanziate dal Viminale, ecc.).
La Costituzione è stata in Italia il paravento, sempre più logoro e strappato e pieno di buchi è vero oggi (neanche Napolitano è stato incriminato per la guerra contro la Libia!), al riparo del quale il potere reale ha potuto organizzare e dirigere le sue strategie antipopolari e criminali senza essere visto, occultato dentro apparati apparentemente democratici all’ombra dei quali ha potuto proliferare e lavorare contro l’ordinamento giuridico di cui era ospite.
E il bello è che di sicuro il ceto politico democristiano, liberale e monarchico del dopoguerra ne era a conoscenza, così come lo sapeva il Pci e Togliatti in primis, che come segretario dell’Internazionale aveva canali privilegiati d’informazione a livello internazionale. Solo che il Pci e Togliatti potevano almeno contare sull’esistenza di quel gigante geopolitico e potenza nucleare che era al tempo l’Unione Sovietica e quindi potevano giocare la loro difficile partita col suo appoggio, nonché con la presenza comunque nel mondo di una serie di altri paesi all’epoca ritenuti socialisti (e già l’Urss e la Cina sembravano spianare la strada ad ulteriori sviluppi).
Il sequestro, la detenzione e poi l’uccisione di Aldo Moro, rimasto vittima della sua creatura, è stato il punto di svolta di questo lungo processo di degenerazione della carta costituzionale, un evento in cui gli apparati segreti della Repubblica e della Nato hanno prima pianificato e poi mandato ad effetto un crimine contro le persone e lo Stato di diritto di cui erano e sono parte integrante. D’altro canto, se il braccio operativo, militare e politico, dell’intera operazione è stato prevalentemente ma non solo italiano, la sua mente non poteva che essere americana.
Date queste condizioni al contorno, e ho sorvolato sulla continua occupazione militare del paese da parte dell’esercito Usa, tramite le sue basi permanenti, anche dopo il rimpatrio delle truppe nel 1947, la nostra Costituzione non poteva che nascere se non morta di sicuro moribonda, svuotata sin dall’inizio e ridotta a un simulacro di se stessa dal potere di fatto americano con la connivenza attiva e scientemente decisa del personale politico soprattutto liberale e democristiano del tempo, di quei rappresentanti legali cioè della Repubblica che avrebbero invece dovuto tutelarne le istituzioni e l’ordinamento democratico.
Questa situazione, per di più, non si è determinata a seguito di una qualche contingenza avversa, esterna o estranea alla natura della Costituzione, ma a seguito precisamente delle sue origini. Fenomeni simili si sono verificati e si verificano periodicamente dappertutto in Occidente e laddove vigono identiche condizioni al contorno. In America si sono manifestati sin dal debutto della Confederazione e sono state poi esportati dagli Usa, una volta divenuti un impero, in tutto il globo. Lo stesso William Colby, il già menzionato direttore della CIA, ci ha persino fatto sapere che le tecniche illegali e criminali sperimentate dalla sua agenzia sul suolo italiano durante il dopoguerra – prima della strategia della tensione, durante quest’ultima fino al caso Moro e oltre – sono state applicate in seguito anche in America latina e altrove.
Del resto, il segreto del grande successo geopolitico dell’Impero inglese e la proiezione internazionale della sua potenza militare ed economica sull’intero globo, spiega ad esempio William Engdahl, risiedeva «in un matrimonio estremamente sofisticato tra preminenti banchieri e uomini della finanza della City di Londra, ministri dei diversi governi, dirigenti di società industriali chiave considerate strategiche per l’interesse nazionale e i capi dei servizi di spionaggio della Corona». Una simbiosi che ha modellato la storia dell’Ottocento e di buona parte del Novecento. Non a caso, spiega ancora Engdahl, «la CIA emergerà dai servizi segreti inglesi in tempo di guerra» e in pieno XXI secolo ne diverrà l’erede naturale con le odierne mille e più basi Usa dislocate in posizione strategica su tutto il pianeta.
D’altro canto, non credere che il fatto di portare alla luce la duplice origine della Costituzione voglia dire, eo ipso, gettarla a mare. Significa solo essere consapevoli e vigili, dando così prova di realismo politico ragionato proprio perché si conosce la natura dell’oggetto in questione e le cause occulte che potrebbero in determinate circostanze determinarne la crisi. Non si potrebbe mettere mano a nessuna modifica di alcunché se non se ne conoscesse in anticipo la natura. Questo vale per la Carta ma anche per il sistema finanziario, l’economia nel suo complesso, e via dicendo. Persino se volessimo trasformare il nostro pensiero ci correrebbe l’obbligo prima di conoscerlo. Lo stesso vale per la scienza del resto.
La sistematica violazione della Costituzione democratica da parte dello stesso potere costituito che l’ha fatta nascere e dovrebbe difenderla, nasce anche da un’altra circostanza ancora più profonda rispetto a quella prima additata. La causa di quest’altra radice più intima delle cose attiene al fatto che all’interno della società del capitale emersa a suo tempo dai processi della sussunzione formale e reale del lavoro al capitale, uno sviluppo societario altamente discontinuo che ha segnato un’intera epoca nella storia del mondo contemporaneo e dell’Occidente e che è stato spiegato solo da Marx (cosa che è attualmente ignota a tutti, anche ai marxisti sopravvissuti nelle loro nicchie accademiche come naufraghi d’altri tempi, e che dovrebbe essere invece oggetto di studio accurato), è nato un individuo prima inesistente nelle formazioni economico-sociali che hanno preceduto il modo di produzione capitalistico e la cui dissoluzione ha reso possibile la formazione di quest’ultimo.
Col capitale, infatti, è nato tra le altre numerose cose che qui non mi è possibile menzionare anche il soggetto contemporaneo vero e proprio, una creatura in carne ed ossa del plusvalore. Il segreto di questo personaggio sta tutto nel suo nome.
Sia un politico, un alto prelato, un privato cittadino o un imprenditore, questo individuo ragiona come se le sue decisioni non avessero altra ragion d’essere che il suo libero arbitrio e nient’altro in società ne condizionasse l’esistenza e il campo d’azione (se non suoi altri consimili). Munito di cotanto viatico, e in specie se è al potere o alla direzione mettiamo di una grande azienda, può quindi elaborare piani, progettare disegni, programmare e pianificare il futuro allo scopo di perseguire i suoi interessi e proteggere in anticipo, contro altri concorrenti, la sua proprietà (politica, economica, finanziaria, territoriale, ecc.). Il principio della politica è la volontà, diceva il giovane Marx, e quest’ultima per l’uomo laico del mondo contemporaneo non ha vincoli o confini (se non quelli che può sempre travalicare).
Un individuo di questa specie, anche se a seguito di un qualche patto con altri suoi consimili genera l’ordinamento giuridico della convivenza civile, non può avere scrupoli di sorta a violarlo e a stracciare il contratto democratico, perché in testa a tutti i suoi pensieri regna sovrana la decisione che ha se stessa come proprio fondamento (e la guerra segue da questa fonte). Io sono, dice questo individuo, il contraltare politico di Descartes, quello che decido. Auctoritas, non veritas facit legem, chiosa Schmitt citando Hobbes. Pur essendo un nazista, Schmitt aveva drammaticamente ragione.
Questo naturalmente è quello che tali individui, singoli o gruppi, non solo credono di essere ma sono, perché tale loro status è insito nella loro natura e non è per niente frutto di convenzioni, e a seguito di queste loro convinzioni sono in grado di commettere i crimini più efferati (anche se vestono l’abito talare).
Nondimeno, per nostra (s)fortuna questo essere umano non nasce dal nulla. Emerge anzi dalla logica dei processi di formazione del capitale ovvero del modo di produzione capitalistico e ne rappresenta una creatura, terribile quanto si vuole, ma pur sempre una sua incarnazione. Dipende dunque da queste sue origini e ha quindi una spiegazione, vale a dire ne possiamo additare le cause e riportarlo quindi, facendolo scendere dai cieli teologici del libero arbitrio, coi piedi sulla terra. Ed è qui che il suo stesso nome ci è prezioso.
Essere soggetti, infatti, vuol dire tanto identificarsi con le pericolose proprietà prima viste e godere apparentemente di una propria autodeterminazione, quanto essere assoggettati a qualcos’altro e dipendere quindi da questa fonte. L’individuo, in altri termini, è entrambe queste cose allo stesso tempo: diciamo un decisionista nel senso di Schmitt e personificazione di un’altra causa a lui ignota (che si serve tra l’altro del primo aspetto per rimanere invisibile, di modo che gli uomini neanche possano sospettare la sua esistenza).
Il capitale o mdpc rappresenta precisamente il fondamento storico, integralmente secolare, che ha dato origine a quel soggetto. Il capitale nasce all’interno dei suoi processi produttivi originari tra XVI e XVIII secolo e dà vita, dentro a quelle che allora erano prima le manifatture e poi le fabbriche del tempo, ad una produzione industriale in cui prendono forma dei rapporti sociali di potere e una struttura gerarchica di ruoli e funzioni che rendono il processo produttivo il sottosistema dirimente dell’intera società.
Non appena infatti il capitale termina, coi sistemi automatici di macchine che incorporano anche la scienza nel loro apparato a prima vista oggettivo, il suo processo di formazione, è dai suoi processi produttivi infatti che emergono poi la merce come forma generale del prodotto, la circolazione generalizzate delle merci, lo scambio, il mercato, il denaro in senso proprio, il plusvalore, il profitto, il salario, la rendita, l’interesse e tutte le categorie tipiche dell’economia capitalistica.
Nondimeno, ciò che genera tutto, il motore di tutte le forme fenomeniche sovrastanti – dalla concorrenza ottocentesca ai capital gains odierni, dal free trade di una volta ai derivati di oggi –, è precisamente la produzione sottomessa alla logica del capitale. È qui che viene spremuto dalla forza lavoro, imprigionata nel suddetto sistema di ruoli e funzioni come sua parte subordinata, il plusvalore che poi si trasformerà alla superficie della società in profitto e questo verrà a sua volta decurtato o redistribuito tra la nuova classe dominante nella forma della rendita e dell’interesse.
Senza l’esistenza del plusvalore, la moderna forma del pluslavoro medievale, non sarebbe possibile spiegare l’esistenza delle diverse categorie economiche che qualificano e quantificano il reddito dei singoli. Senza quella fonte, ad esempio, il profitto non avrebbe origine alcuna e non sapremmo spiegarlo se non con tautologie tipo guadagno dell’imprenditore, retribuzione manageriale e simili, soluzioni che in effetti non rendono conto di nulla (né possono farlo, essendo tautologiche). Tutto nel mondo, dice lo scienziato statunitense John Paulos, deve infatti avere una causa. Di conseguenza non possono esistere oggetti senza una qualche loro ragion d’essere. Lo stesso vale per tutte le altre rubriche tradizionali. Se poi si tiene conto del fatto che i processi produttivi originari emersi dalla sussunzione formale e reale del lavoro al capitale hanno fatto nascere anche il soggetto di cui si è prima parlato, si dovrebbe avere un’idea più chiara della geniale spiegazione di Marx.
Oltretutto, l’esistenza di una catena dispotica di comando dentro la fabbrica, il sistema gerarchico della produzione capitalistica, era proprio ciò che per il giovane Gramsci – quello dell’Ordine Nuovo, dell’occupazione delle fabbriche nella Torino industriale, del “biennio rosso” 1919-1920, della nascita del Pci nel 1921 – rendeva lo Stato di diritto liberale del suo tempo una mera «finzione giuridica», in quanto l’apparente libertà politica degli individui presupponeva a monte l’esistenza di quella gerarchia di classe nel cuore stesso della società, laddove il potere capitalistico reale affondava le sue radici. Non a caso questo Gramsci è stato completamente ignorato dalla storiografia marxista e comunista del secondo dopoguerra. E non si può davvero dire che la dicotomia in questione, tra libertà democratiche e dispotismo della tecnostruttura d’impresa, con la sua crescente forbice politica tra lavoro subalterno e direzione aziendale autoritaria, non esista ancora oggi. Tutt’altro.
D’altro canto, queste circostanze ci fanno capire anche quanto sia fuorviante discettare di economia reale in termini di produzione di semplici valori d’uso o beni come dice l’accademia e contrapporla poi al mondo di carta della finanza. Questa fittizia distinzione è in realtà una scaltra invenzione dell’attuale economics ormai soprattutto americana (e non a caso!) che a sua volta ricalca e amplifica le intenzioni della economia politica classica (che tra l’altro è sempre stata «uno specchio deformante», dice Marx, della realtà). Visto il pulpito da cui viene la predica, dovremmo anche solo per istinto diffidarne.
D’altro canto, visto che il processo produttivo plasmato a suo tempo dal capitale è il fondamento da cui si origina tutto, il soggetto, la differenza tra apparenza ed essenza, il plusvalore: la fonte del profitto, le forme fenomeniche, la rendita, l’interesse, ecc. (questi sono gli ingredienti effettivi della cosiddetta economia reale!), è logico che abbiano tentato di farlo sparire e di presentarlo come semplice apprestamento di valori d’uso usabili da parte della vita umana in generale, un sistema molto comodo, dice Marx, sia di cancellare i tratti specifici ad esso impressi dal capitale, sia di rendere il capitale stesso e i suoi funzionari in carne ed ossa «un elemento naturale immutabile dell’esistenza umana» e insieme «una condizione eterna dell’esistenza societaria».
L’ideologia economica, in altri termini, sotto le mentite spoglie della “economia reale” avrebbe voluto rendere necessaria e inevitabile l’esistenza della gerarchia di fabbrica, del potere decisionale verticistico dentro le aziende, la subordinazione della forza lavoro alla direzione d’impresa, insomma tutte le istituzioni più tipiche del potere imprenditoriale. Se in effetti, nota Marx, «gli elementi oggettivi del processo lavorativo fossero per natura capitale», ci sarebbe poco da dire. La produzione potrebbe essere organizzata solo in modo tecnico-scientifico e non vi sarebbe più alcun bisogno di rappresentanze operaie (sindacati, associazioni, partiti, ecc.) per dirimere i problemi. Sarebbe sufficiente lasciar decidere tutto alla direzione scientifica d’impresa. Un sogno per i funzionari del capitale.
Dalle manifatture originarie alla fabbrica ottocentesca, dalla nascita dell’impresa vera e propria coi sistemi automatici di macchine e l’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor, alla grande impresa multidivisionale, dai monopoli del Novecento fino alle multinazionali e alle società transnazionali attuali – un’evoluzione storica che ha prodotto, en passant, due guerre mondiali –, la potente ideologia economica ha sempre avuto a cuore la sua creatura preferita, la cosiddetta “economia reale”. Visti tutti gli schermi di fumo che le permetteva di secernere, ne aveva ben donde! Ovviamente, va da sé, anche il mondo della finanza internazionale non è quello che l’economics ci dice che sia. Men che meno assomiglia al ritratto che ne dipingono i media (due altri potenti specchi deformanti, per dirla di nuovo con Marx, in cui si riflette solo l’inganno a nostro danno, non l’effettivo stato delle cose).
Per questo è venuto il momento di ristudiare tutto da capo e ripensare l’intera storia in particolare del Novecento. Non solo è arrivato il momento di cambiare le carte in tavola e chiamare le cose col loro vero nome, ma è divenuto indispensabile ritornare al migliore e più sofisticato Marx per poterlo fare. Altrimenti non si potrà che cadere in un uovo abbraccio letale con l’ideologia economica dominante.