Avvertenza: le righe che seguono non sono un report della giornata. Per farsi un’idea dell’andamento della discussione rimandiamo al video che entro breve (speriamo) apparirà su questo e su altri siti.
L’idea di chiamare Judy Wood per la prima volta fuori dagli Stati Uniti ad esporre in modo pacato ed approfondito almeno l’essenziale delle sue argomentazioni su cosa è successo a New York l’11 settembre 2001 ci era venuta poco dopo l’uscita del suo volume Where did the towers go?.
Un libro dettagliatissimo, estremamente ricco di dati e dimostrazioni intorno a evidenze di ogni tipo legate ai fatti di quel giorno al World Trade Center: evidenze preventivamente fabbricate, evidenze sfuggite alla fabbricazione, semplicemente “fatte accadere”, misconosciute, nascoste, silenziate, rimosse, già note, poco note, note e mai conosciute, evidenze spinte a forza sul davanti della scena, invocate per depistare, rilasciate, di dubbia provenienza, evidenze indicibili, ecc.
Il tutto è narrato con un linguaggio preciso e misurato, assai più vigile rispetto a quello da lei talvolta usato nel suo sito (www.drjudywood.com), dove da diversi anni si potevano trovare già immagazzinati molti dei suoi articoli e alcuni studi preparatori poi rielaborati e confluiti nel volume in questione. Alla fine ci siamo trovati davanti ad un’opera di scavo e ricostruzione lucidissima, una sorta di compendio ragionato e straordinariamente illustrato di ricerche ormai quasi decennali sulle dinamiche attraverso le quali è stato prodotto il dissolvimento in aria degli edifici del WTC.
Sorvolare sulla pubblicazione di un libro come questo, non prendersi la briga di analizzarne (e magari smontarne seriamente dall’interno) gli argomenti, oppure (come spesso è stato fatto anche in rete) passare direttamente alla denigrazione, o per sentito dire “all’interno del movimento” o mediante una struzzesca indisponibilità a considerare le evidenze, non è in ogni caso un atteggiamento degno di quanti ancora si dichiarano, per una qualsiasi ragione, “cercatori di verità”, dentro o fuori il movimento ufficiale.
A rafforzare in noi l’idea di avere Judy Wood come interlocutrice – non abbiamo alcun motivo per passare sotto silenzio questa ulteriore circostanza – è stata, più di recente, l’accurata quanto discreta operazione di censura grazie alla quale le componenti ufficiali più in vista del “movimento per la verità” negli Usa (in primis gli Architetti & Ingegneri e gli Scholars) hanno incassato il poco nobile risultato di tenerla lontana dal “convegno del decennale” (i Toronto Hearings svoltisi tra l’8 e l’11 settembre scorsi), evento di carattere prettamente accademico, al più commemorativo e piuttosto inconcludente (o talvolta persino depistante) sul piano degli approfondimenti. Se il proposito di questa assise e del collegato 911 Consensus Panel fosse stato davvero quello di riunire sotto un unico autorevole coro di voci “indipendenti” il maggior numero di “best evidence” che si oppongono alla mitologia ufficiale (cfr. www.consensus911.org, in home page), non si comprende perché vi sia stato così tanto da fare per procurare l’assenza di una voce come quella di Judy Wood.
A nostro parere, ciò che più colpisce non è tanto la clamorosa sconferma del proposito fondativo appena enunciato dai promotori del Panel, quanto, piuttosto, la definitiva affermazione di una pratica autoritaria inammissibile, il programmato rifiuto del confronto e l’ostracismo conclamato di lunga data nei confronti di ricerche che per loro natura reclamano invece approfondimento, discussione e acume critico. Le ragioni e i risvolti di tale ostracismo, da sottoporre senz’altro in altra sede a un’ indagine assai accurata, gettano in ogni caso una luce piuttosto cupa su diverse vicende interne al “movimento per la verità”.
Al punto che, a distanza di circa sei anni dalla primitiva aggregazione, la sua storia e il ruolo da esso giocato vanno a nostro giudizio profondamente reinterpretati ed essenzialmente riscritti includendo fra le variabili in gioco la possibilità che esso stesso sia stato infiltrato cognitivamente da settori dell’establishment dediti a sofisticate operazioni di depistaggio, limited hangout e fabbricazione del dissenso. Faremo di nuovo un breve cenno a tale questione riprendendo gli spunti salienti dell’intervento di Andrew Johnson.
Da diversi riscontri raccolti a margine e dopo l’incontro del 22 ottobre, emerge chiaramente come ai presenti siano bastati i minuti iniziali della presentazione di Judy Wood per comprendere che non è affatto proponibile un aggiramento delle evidenze da lei discusse. Né è ammissibile scansare tramite commenti superficiali le ipotesi interpretative che a partire da esse la scienziata statunitense costruisce. Non si tratta affatto, come alcuni pretendono, di esternazioni di junk science o di elucubrazioni strampalate circa l’impiego di famigerate e non meglio precisate “armi esotiche”…
A ben guardare, Judy Wood non si diffonde in disquisizioni sui nomi da dare ai dispositivi distruttivi impiegati nell’operazione che ha trasformato in polvere a mezz’aria le torri e l’edificio numero 7 (very fine dust fu l’espressione di D.R. Griffin durante il convegno che organizzammo all’Arena del Sole di Bologna nel 2006). Da studiosa giammai abituata a praticare la frode scientifica, non le interessa fornire un ennesimo specchietto per le allodole sul modello “termite e derivati” (cfr. su questo sito l’articolo intitolato 11 settembre dieci anni dopo. Meglio provare a dire la verità anche sul “movimento per la verità”).
Le preme invece definire nel modo più preciso possibile, senza tralasciare in ciò alcuna cura, i fenomeni di cui trova riscontro incontrovertibile, creando se necessario la propria terminologia, come fa ad esempio con una delle evidenze dirimenti dell’intero affaire, la trasformazione in nano-particelle di polvere dell’acciaio e del cemento: questo fenomeno viene da lei chiamato dustification, proprio per differenziarlo dalla mera polverizzazione dei materiali che si può ottenere mediante l’impiego di agenti meccanici.
Le evidenze che Judy Wood ci ha squadernato davanti il 22 ottobre convergono tutte nella direzione dell’uso di tecnologie in grado di dissociare, per così dire dal di dentro, i materiali sottoposti appunto ad una “azione” a livello quanto meno molecolare, se non addirittura atomico. Se così non fosse, non si potrebbero spiegare altrimenti, a suo avviso, gli scenari reali che formano il seguente impressionante set di evidenze, peraltro raccolte in una lista “di base” lontana dall’essere completa:
- L’enorme volume di nano-particelle di polvere ad altissima densità, prodotto nel dissolvimento di almeno l’80% dell’acciaio e del cemento di cui erano fatte le torri: fenomeno capace di oscurare la luce solare su tutto il cielo della parte bassa di Manhattan;
- L’assenza di elevate temperature durante la distruzione: le nano-particelle di polvere erano più fredde della temperatura dell’ambiente.
- Le nano-particelle continuarono a reagire anche dopo essersi depositate, divennero via via più “nano” fino al dissolvimento in strane nuvolette di “fumo”, la cui presenza è stata tante volte osservata, anche a distanza di anni, da quanti hanno calcato “Ground Zero”.
- La messa fuori uso, l’improvviso arrugginimento di tanti veicoli a motore (circa 1400) parcheggiati nelle vicinanze immediate e non immediate del WTC, con la frequente comparsa dalle lamiere di “fuochi” in apparenza spontanei, senza evidenza di produzione di calore, incapaci tuttavia di bruciare gli innumerevoli fogli di carta circostanti; il ritrovamento di numerosi veicoli “cappottati” o violentemente spostati e addossati a muri ed altre superfici solide;
- Gli improvvisi spostamenti del campo magnetico della Terra registrati da diverse stazioni di rilevamento magnetometrico proprio in corrispondenza di ciascuno degli eventi distruttivi al WTC.
- L’assenza pressoché totale di danni alla parete di contenimento (bathtub) che impedisce all’acqua del fiume Hudson di riversarsi nell’area del WTC; i lievi danni subiti nei sotterranei del WTC dalle linee ferroviarie, dai tunnel e dai centri commerciali presenti.
- Lo strano destino capitato all’edificio numero 4, la cui ala nord sopravvisse mentre la parte restante scomparve lasciando l’evidenza nettissima di un taglio in verticale.
- L’onnipresente carta, “sopravvissuta agli eventi” in brandelli sparsi su tutta Bassa Manhattan, senza segni di bruciatura nemmeno quando si trovava nelle immediate adiacenze di auto in fiamme o di colonne d’acciaio aventi luminescenze rosse, gialle e perfino bianche.
- L’impatto sismico delle distruzioni (WTC 1, WTC 2 e Building 7) fu minimo e non paragonabile a quello registrato in casi di demolizione controllata mediante esplosivi.
- Le torri furono dissolte in un tempo più breve di quello che la fisica prevede in caso di “collasso gravitazionale”, persino se questo avvenisse alla velocità della caduta libera.
- L’ammasso di detriti rimasti sul terreno dopo le distruzioni fu troppo piccolo per poter rendere conto della massa totale degli edifici, mentre camion enormi carichi di polvere e fanghiglia hanno continuato per anni a muoversi da Ground Zero.
- La presenza dell’uragano Erin a poca distanza al largo di Long Island, sebbene conosciuta, fu passata sotto silenzio e perfino omessa nelle mappe meteorologiche di quel giorno. Perché “censurare” un uragano (potenzialmente più distruttivo di Katrina 2005) che l’11 settembre si trovava a poche miglia da New York se esso non avrebbe mai potuto avere una qualche relazione con gli eventi distruttivi occorsi in quel giorno?
Come di norma avviene in situazioni di questo tipo, un qualsiasi tentativo di spiegazione scientifica si indirizza verso la formulazione di un’ipotesi di lavoro in grado di rendere conto del maggior numero o, meglio ancora, dell’intero insieme di evidenze. Non si fa quindi alcun azzardo o salto nel buio, da questo punto di vista, nel seguire il sentiero di Judy Wood quando suppone l’impiego di un qualche sistema di armi ad energia libera diretta: se questa è l’ipotesi che meglio di qualunque altra si accorda con le evidenze elencate, questa ipotesi deve essere fatta e occorre tenerne conto laddove dovessero emergere evidenze nuove di qualsiasi tipo.
Se altri hanno ipotesi differenti che meglio si accordano alle evidenze ricordate, che le avanzino senza indugio proponendole alla discussisone più franca… Ma non si continui a fare come se queste evidenze non esistessero o fossero il frutto di fantasticherie pseudoscientifiche.
Lo stesso dicasi riguardo quanto esposto il 22 ottobre da Andrew Johnson. In particolare a proposito di due questioni: quella sin troppo vexata chiamata “no plane theory” e quella senz’altro meno nota (e per nulla conosciuta) delle vicende interne al movimento ufficiale per la verità. Parto dalla prima e preciso subito che mi limiterò in questa sede ad alcuni brevi cenni rimandando quanti volessero approfondire a successivi interventi su questo sito e al volume 911. Finding the Truth, che raccoglie i principali articoli e studi di Johnson (l’ultima edizione aggiornata è datata luglio 2011).
Le evidenze relative ai video degli “impatti aerei”, anzitutto quello ai danni della torre sud, ci pongono inequivocabilente davanti ad una scelta: o accettare (come per i cosiddetti “crolli”) la sospensione delle leggi della fisica (se si crede a ciò che si vede: un “aereo” che taglia un edificio di acciaio e cemento e trapassa con la punta dall’altra parte dell’angolo quasi senza subire decelerazione); o accettare la possibilità che sia stata architettata by design una qualche forma di fabbricazione, alterazione, manipolazione, creazione grafica, ologrammatica, ecc..
Scartata la prima opzione, non è che con la seconda Johnson si avventuri in una di quelle defatiganti controversie di fantasia sulle “tecniche” usate che tanto hanno infiammato per anni i “dibattiti” in rete fra “planers” e “no planers”. Egli si limita a far riflettere e a ricordare il precedente classico, il capostipite della nutrita schiatta di videomanipolazioni made in Usa, il celeberrimo Zapruder film sull’assassinio di JFK. E poi, giustamente, pone tutti davanti al retorico interrogativo: è pensabile che a distanza di una quarantina d’anni gli agenti dei dominanti non abbiano saputo fabbricare un prodotto che stesse non al di sotto, ma ben al di sopra del livello di sofisticazione manipolatoria già palesato nel 1963?
Se già queste osservazioni non dovessero mettere sul chi va là i “cercatori di verità”, Johnson ci riporta ancora con i piedi per terra analizzando nel dettaglio i più di 500 racconti orali dei “first responders” testimoni oculari del secondo “impatto”, per la prima volta raccolti nel 2005 sul sito del New York Times (cfr. http://graphics8.nytimes.com/packages/html/nyregion/20050812_wtc_graphic/met_wtc_histories_full_01.html).
Tra gente che non è inizialmente sicura che si tratti di un aereo, tra quanti dicono «ho realizzato solo dopo che era un aereo», «ho sentito solo il rombo di un motore», «non so cos’era ma ho visto qualcosa», «un missile sparato da un aereo di tipo militare», «ho proprio visto un razzo», «non ho mai sentito il rumore di un aereo», «ho sentito solo l’esplosione», «ho visto solo la palla di fuoco», «ci sono più aerei nell’aria», «erano due caccia F15», ecc. ecc., il quadro che viene fuori è certamente più che confuso e, alla fine, cifre alla mano, degli oltre 500 racconti analizzati forse solo 4 o 5 rimangono in piedi di fronte ad un’accurata analisi della loro coerenza interna… (cfr. 911. Finding the Truth, pp. 84-92 e www.checktheevidence.co.uk).
Tuttavia la coerenza, in molti casi, si ristabilisce prontamente su un altro piano: dopo che qualcuno dice ai “first responders” che si è trattato di un grosso aereo commerciale, che così hanno sentito dire e che soprattutto l’hanno visto in televisione, a quel punto quasi tutti si ricordano e sono sicuri di aver visto esattamente questo tipo di velivolo impattare la torre sud. C’è bisogno di commentare?
Per il primo “impatto” (quello filmato dai “mitici” fratelli Naudet) siamo messi decisamente peggio: solo un testimone oculare (tal William Walsh) descrive un aereo dell’American Airlines! Il resto degli accounts è del tenore visto più sopra. Figuriamoci se resoconti di questo genere fossero portati davanti ad un tribunale popolare un minimo indipendente… Negli Usa attuali l’ipotesi è ovviamente di pura fantascienza: a nulla vale rivendicare ancora la “riapertura” dell’inchiesta (che mai ci sarà fuori dalla grande farsa, almeno finché regnano gli attuali dominanti).
La verità a noi più accessibile e ravvicinata, come ha ricordato Johnson, è invece un’altra: nulla fu più facile, durante quel giorno sinistramente fabbricato, della vendita in diretta della storia emotiva degli aerei dirottati e fatti schiantare, nel mezzo di una sofisticata operazione di invenzione della realtà e di spargimento planetario di terrore a più livelli. Non meniamo il “movimento” per l’aia tra i soliti cani: quale corte o assise giudicante mai si sintonizzerà su queste lunghezze d’onda cognitive?
Da rimarcare, ancora una volta, l’atteggiamento in proposito di una donna di scienza come Judy Wood. Evidentemente consapevole del ginepraio di insostenibilità fisiche e logiche in cui andrebbe a cacciarsi con l’ipotesi degli aerei, nella Prefazione a Where did the towers go? sostiene soltanto che «nessuna evidenza dei supposti aerei fu trovata sulle scene del crimine» (p. xxxii). Infatti, ciò che si può dire sulla base delle evidenze è solo (e già non è poco, se non ci si ficca nell’impossibile) che le due torri quella mattina, a distanza di circa un quarto d’ora l’una dall’altra, entrambe ottennero il loro buco.
Questo, se ci pensate un attimo con un’altra mente, è qualcosa di semplicemente grandioso. Un salto che fa piazza pulita di mille elucubrazioni e ci dice che qualcosa di diverso da aerei (dall’esterno o dall’interno poco importa) ha causato due fenomeni fisici mai accaduti prima con quelle modalità. Questa è la spiegazione più limpida e in linea con la lama del rasoio di Occam, così come la vediamo instancabilmente in azione lungo tutte le 500 pagine dello studio di Judy Wood.
L’altro corno del suo intervento Johnson lo ha piantato sul terreno incognito della “storia interna” del movimento per la verità. La sua ipotesi di lettura, corroborata da una serie impressionante di situazioni e di casi di cui lui stesso è stato protagonista dal 2005 ad oggi, è che il 911 Truth Movement sia stato – con ogni probabilità sin dall’inizio – infiltrato a livello cognitivo apposta per indirizzarlo in un labirinto di false piste e di “rilasci limitati” (limited hangouts) in grado di spingerlo verso il voluto “porto delle nebbie” nel quale, alla fine, si andrebbe a dissolvere la sua carica di denuncia e disvelamento dell’evento mediatico pivot che inaugura la messa in onda del Nuovo Ordine Mondiale.
In una mia precedente introduzione sul tema (11 settembre dieci anni dopo. Meglio provare a dire la verità anche sul “movimento per la verità”, pubblicata su questo sito il 12 settembre scorso), avevo posto l’attenzione sul dirottamento del movimento operato tramite lo spaccio della “mitica” termite quale “best evidence” e attrice protagonista dei “collassi”: ma questo della termite è solo il caso più clamoroso di una ricca serie di false piste, come puntualmente notano anche Wood e Johnson. Per farne la storia (ché dopo sei anni dalla formazione dei primitivi Scholars for 911 Truth si può anche cominciare a farla…) occorre fissare almeno i capitoli più importanti dell’infiltrazione cognitiva, e cioè:
a) la nascita delle società ufficiali dei “cercatori di verità” (Scholars, Architects and Engineers, Veterans, Pilots, ecc.);
b) la convenzione ad escludere le altre ricerche e gli attacchi personali ai ricercatori “fuori dal giro”;
c) le “imboscate” pubbliche e i tentativi di screditare, riportare in modo fuorviante, inesatto e incompleto i risultati degli studi di Judy Wood, Morgan Reynolds ed altri;
d) la gestione manageriale della fabbricazione del dissenso operata da personaggi come Steven E. Jones e Richard Gage;
e) la formazione di una specifica agenda del Truth Movement, finalizzata ad evitare la discussione sulle evidenze sopra elencate;
f) la presentazione di tale agenda nel corso di convegni internazionali, come se fosse patrimonio di conoscenze condivise dall’intero movimento e come base per la nascita del Consensus 911 Panel, ultimo recente raggruppamento di studiosi e critici della versione ufficiale che mira a stabilire la nuova ortodossia dentro il movimento.
Questi capitoli andranno certamente trattati in seguito sulle pagine di questo sito. Johnson lo ha fatto di sfuggita durante l’incontro del 22 ottobre e lo fa con dovizia di particolari nel suo libro. Qui si può intanto riflettere sull’assonanza rivelatrice tra quanto sta accadendo circa le vicende del 911 Truth Movement e la grande operazione di insabbiamento, depistaggio e censura orchestrata da diverse agenzie riguardo la fusione fredda dopo la scoperta di Fleishmann e Pons del 1989…
Ovviamente queste non possono essere coincidenze, specialmente se viste dal lato dell’establishment dei fisici statunitensi, dove gli arcana indotti dall’impero, le équipes di ricerca supersegrete embedded e le frodi scientifiche sono all’ordine del giorno ormami da decenni.
E da questa piattaforma di lancio non è poi così difficile librarsi verso le devastazioni che l’11 settembre ha reso possibili. Quando si hanno i Megamedia a servizio 24 ore su 24 su tutto il globo, la comunità scientifica formata ed asservita tramite mille “progetti” e “finanziamenti alla ricerca”, un apparato militare “imperiale” che assorbe il bilancio di interi stati, agenzie di intelligence superdotate di mezzi e di una pletora di agenti (esecutivi, e soprattutto, pensatori by design di strategie di terrore), è facile riuscire a creare una cappa ideologica (la cosiddetta “guerra al terrorismo” e tutta la piovra a mille tentacoli che essa muove) che immobilizza le coscienze e permette, da dento una coltre di nebbia (per il momento) indissolvibile, di procedere ad “operazioni” di destrutturazione di interi paesi e società locali da rendere “omogenei” agli altri già “livellati” sulle esigenze del nascente Ordine Mondiale.
Durante l’incontro del 22 non si è fatto che qualche breve cenno alle vicende afghane, irakene, somale, palestinesi, libanesi, ivoriane e alle svariate colorazioni delle devastazioni arabe in corso (Tunisia, Egitto, Bahrain, Yemen, Arabia Saudita, ecc.). Il tempo a nostra disposizione non consentiva una trattazione un minimo esaustiva dei vari casi, ma nonostante questo la chiave di lettura proposta riguardo la Libia ha mostrato la sua adeguatezza anche rispetto a tutte le guerre e ai crimini commessi dall’elite dominante nell’ultimo decennio. L’inoculazione dall’esterno di virus in grado di infettare le istituzioni e la mente dei popoli dei paesi-target, la corruzione e la messa a servizio di funzionari governativi, giornalisti, professori universitari e capi religiosi: ad un certo punto, il tutto viene shakerato nell’ignobile frullatore propagandistico di reti come Al Jazira e Al Arabia, dal quale parte il segnale per la vera e propria sobillazione dall’interno e per l’infiltrazione di mercenari (contractors stranieri, fanatici religiosi assoldati, sfigati locali profumatamente pagati ecc.). A questo punto il copione è pronto e comincia la parte pubblica dei colpo di stato.
Parlando della sua esperienza in Libia nella primavera di quest’anno all’interno della Fact Finding Commission, Paolo Sensini ha ripercorso punto per punto i passaggi di questo schema elaborato e messo in atto dalle elite dominanti ai danni di un piccolo-grande paese, la Jamahiriyya libica, che pur con alcune contraddizioni interne aveva negli ultimi decenni perseguito e in buona misura realizzato una forma di società che si governava da sola (nel bene e nel male, e su base tribale) ponendo un argine alle ingerenze criminali dell’Occidente.
A partire dalla seconda metà dello scorso decennio, una serie di “accordi”, infiltrazioni “molecolari” e cedimenti sul piano teorico e politico hanno portato alla formazione di un’ala interna all’establishment favorevole ad una politica di “liberalizzazioni” e a limitare la redistribuzione del reddito derivante dalla vendita di petrolio. Non sono da ricordare, qui, fatti e personaggi: vale lo schema e la sua dinamica autoriproduttiva.
Già nel 2007, comunque, si era formata all’interno dello stesso governo libico e sotto l’impulso anche di familiari di Gheddafi, una “scuola” di “riformatori” potenzialmente in grado di costituire una fronda interna “assoldabile” dalle elite dominanti. C’è voluto qualche anno di incubazione, ma sul finire del 2010 il “fronte interno” era praticamente pronto. Dall’inizio del 2011 si passa quindi alla fase pubblica del golpe, al tradimento formale dei “già cooptati” dall’elite, alla nascita del “consiglio di transizione”, all’infiltrazione militare e alla fabbricazione della guerra civile propedeutica all’intervento della Nato.
La balcanizzazione di nuovo tipo della società libica (dopo la Palestina, la Somalia, la Jugoslavia, l’Afghanistan e l’Irak non si può certo parlare di semplice “balcanizzazione”) passa per la destrutturazione sociale, la distruzione (per la ricostruzione occidentale) di infrastrutture essenziali (l’epitome massima è, forse, l’annientamento criminale delle tubazioni del grande acquedotto che dal Sahara riforniva le città della costa), l’utilizzo manipolatorio e razzista dell’elemento tribale, distolto dal precedente quadro di autogoverno e indotto a determinare una situazione di guerra di tutti contro tutti, dalla quale emerge poi immancabilmente, come una Nato fenice, l’ordine più consono al dominio e agli affari occidentali.
L’intervento di Sensini ha magistralmente focalizzato tutti gli aspetti di questo schema, la cui operatività – come stiamo vedendo proprio in questi giorni con l’attacco a tenaglia alla Siria e le nuove (determinanti stavolta?) minacce all’Iran – non conosce soluzioni di continuità pur nel variare dei “teatri”. Il merito di un libro come Libia 2011, a parte la ricchezza delle fonti e la serietà dell’inquadramento storico delle vicende della Jamahiriyya, sta molto nel messaggio che consegna a tutti i popoli soli del pianeta, messaggio che Sensini ha voluto racchiudere anche nel sottotitolo dentro un’immagine di indubbia efficacia: if you don’t come to democracy, democracy will come to you.
Ed è proprio questo che induce a riflettere. I popoli non hanno davvero alcuna speranza quando è l’elite dominante ad orchestrare il “cambiamento”. I popoli che non vorranno la loro democrazia e che tenteranno, al limite, di fare da sé e in altro modo, avranno la democrazia dall’alto dei cieli (con le bombe) e dal basso (con la merda economica e le sobillazioni che sanno fabbricare).
Quindi non sarà solo un problema di unire i popoli soli, ma di introdurre all’interno delle menti di molti (malgrado il disprezzo per la massa palesato anche dai novelli philosophes in rete tipo Gianluca Freda o dagli ex reporter uomini soli al comando stile Paolo Barnard) gli anticorpi giusti per far fronte alla primitiva infiltrazione cognitiva che rappresenta l’abc sulla quale si impianta lo Schema e tutti i suoi crimini.
Noi di Faremondo, pur con tutti i nostri limiti, da tempo durante i nostri incontri insistiamo su questo punto per noi cruciale. E non è un caso che richiediamo al “pubblico” una partecipazione diversa, non semplicemente le solite “domandine all’ospite” a fine monologo.
Il compito che ci eravamo prefissi per il 22 ottobre non era per niente facile, è vero. Tuttavia, l’andamento della discussione ci ha soddisfatto e ci spinge a continuare, a partire dal prossimo incontro del 3 dicembre sulle mani dei dominanti messe su tutto il continente africano (Tutte la mani sull’Africa: il caso della Costa d’Avorio. Senza dimenticare nemmeno un angolo di un intero continente sotto saccheggio).
Tenere insieme (il 22 ottobre) in un’unica giornata di discussione l’11 settembre 2001 e il successivo decennio di devastazioni criminali orchestrate dal Potere significava anche provare a mettere sul davanti della scena altre e più specifiche chiavi di lettura che normalmente rimangono nell’ombra o, semplicemente, vengono cancellate o ignorate. Non so fino a che punto siamo riusciti nell’intento. Ci vorranno senz’altro altri incontri per rendere più chiare le ragioni di questa nostra opzione. Tuttavia, qualcosa sul terreno sembra essere rimasto.
A cominciare da un certo qual ridimensionamento della chiave interpretativa del presente fondata sulla geopolitica: perché, come si è visto in alcuni frangenti dell’incontro, pare ormai urgente condividere con quanti ci ascoltano la consapevolezza che la spiegazione “in ultima analisi ciò che conta sono i rapporti di forza” non è affatto una spiegazione del “perché accade ciò che accade”, almeno finché si continua a tacere sul movente specifico che spinge i dominanti a farsi criminali in modo così sistematico.
Non si può sempre ragionare sulle cose dell’ultimo decennio come se questa loro condotta fosse un esito poco razionale dovuto ad una qualche interpretazione iperdemoniaca del proprio ruolo, sostenuta da questo o quel gruppo, lobby, società segreta o cordata di interessi. E non si può certo superare questa impasse sostenendo che, se cambiassero un po’ i protagonisti del big game, potrebbe magari andare in onda una versione “meno criminale” (magari di tipo multipolare) delle devastazioni sperimentate dopo l’11 settembre.
È evidente, invece, che la criminalità squadernata dai dominanti è loro richiesta perché, in questa come in altre fasi del mondo contemporaneo, essa serve al meglio il “principio di società” che essi rappresentano (in qualsiasi modo lo si voglia connotare).
Criminalità richiesta da chi? L’aspetto meno evidente, semmai, è proprio questo: nei fatti non c’è proprio nessuno a commissionare loro tale condotta criminale, perché il Potere che essi servono ed incarnano non è di tipo personale. Discende dal funzionamento di un dispositivo (o principio d’ordine sociale) astratto (una stessa sostanza-quantità, il capitale, che si accumula su se stessa, all’infinito), la cui logica obbliga chi lo impersona a comportarsi in un determinato modo, ad organizzare il proprio e l’altrui tempo secondo certe costrizioni, a sottrarre vita, risorse, linguaggi ed emozioni ad una società e ad un pianeta altrimenti “naturalmente” ricchi, che potrebbero senza drammi vivere in pace e regolarsi senza correre dietro ad alcun “astratto principio” al di fuori dalla loro misura e dei propri limiti.
Da questo punto di vista appaiono chiari almeno due nodi fondamentali:
- i dominanti, che in un ideale processo potrebbero dichiararsi innocenti persino rispetto ad un crimine come l’11 settembre e le guerre che ne sono seguite (abbiamo semplicemente servito un principio, siamo soltanto funzionari che fanno il “lavoro di Dio”, come ha avuto modo di spiegare il C.E.O. di Goldman Sachs), non vanno semplicemente sostituiti con altri che per formazione mentale acquisita ragionino allo stesso modo;
- qualsiasi tentativo di “rivoluzione” che non proponga, non immagini e non sperimenti un principio d’ordine sociale differente da quello presente è destinato al fallimento o a riprodurre sotto nuove spoglie l’ordine attuale (come appare evidente nelle “rivolte senza testa” degli indignati, tanto carenti sul piano dell’eleborazione mentale di un’altra forma di società quanto eterodirette dalle elite dominanti verso un restyling traumatico e quanto mai caotico del mondo contemporaneo).
Queste brevi osservazioni ci aiutano a costruire una griglia concettuale adeguata a situare e a misurare in modo non superficiale anche quanto è stato discusso durante la giornata del 22 ottobre. Senza di essa sarebbe ad esempio difficile se non impossibile inquadrare in modo più nitido lo specifico comportamento dei perpetratori dell’11 settembre, in particolare quello di quanti hanno ideato e portato a termine il dissolvimento in aria degli edifici del World Trade Center mediante l’impiego di tecnologia militare “nera” con ogni probabilità basata su “energia libera diretta”, le cui evidenze Judy Wood ci ha più volte magistralmente additato durante il suo intervento.
Se le cose sono davvero andate così come ci indicano le evidenze e la teoria ad oggi più coerente costruita sulla loro base, siamo costretti a leggere il comportamento dei dominanti anche come un insieme stratificato di messaggi lanciati apposta per terrorizzare, senz’altro dietro il suggerimento di alcune “menti raffinatissime” all’interno dell’elite dominante. Ben oltre, in definitiva, la stessa messa in scena della nuova Pearl Harbor funzionale nel risiko geopolitico allo scatenamento delle successive guerre di aggressione a direzione Usa-Nato.
Vi sono allora, quanto meno – e ci torneremo sopra presto in un prossimo scritto – altri due distinti livelli di significato nel messaggio di terrore diramato dal Potere in questo giorno speciale:
a) la dimostrazione in diretta mondiale di una potenza distruttiva inedita, ad oggi inattaccabile e potenzialmente applicabile ovunque su grande e piccola scala;
b) il connesso monito rivolto alle plebi planetarie: “tenetevi attaccati a questo sistema che stiamo in ogni caso mandando in catastrofe, perché altrimenti, se vi ribellerete ai nostri disegni, potrebbe essere anche peggio perché siamo davvero disposti a mandare tutto in rovina”.
E qui torniamo alla nostra situazione di popoli soli nel pianeta alieno costruito dall’elite dominante. Il punto cruciale allora si sposta: dai paesi, dagli stati, dai territori singoli alle strategie di sopravvivenza di tutti per uscire da un pianeta di questo tipo.
Altrimenti, perché continuare a nonvivere e a nonpensare?
Bologna, 17-11-2011 Emanuele Montagna